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I luoghi della memoria a Milazzo, il sacrificio di Matteo Nardi

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La Battaglia del 20 Luglio

cfr   La Battgila di Milazzo parte prima

La Battaglia di Milazzo

Dal ponte a Porta Messina

L'ultimo scontro sul litorale di levante si ha davanti a Porta Messina, l'ingresso principale della città, dove arriva la strada rotabile da Olivarella. Intorno alle 12, messe in fuga dall'attacco dei volontari dopo la "lotta di giganti", le truppe borboniche, in gran parte -nonostante i tentativi di fermarle da parte di Bosco e dei suoi ufficiali- si riversano disordinatamente dentro le mura della città. Ma la partita non è ancora finita: la fucileria dalle mura e dalle fortificazioni che fiancheggiano la Porta e dalle barche tirate in secco sul litorale, l'artiglieria dagli spalti del Castello e dal Quartiere battono la strada, impediscono ai volontari di avventurarsi fuori dai ripari di fortuna attorno al Ponte, colpiscono a morte chi si espone, come il maggiore Migliavacca. Medici non riesce a sboccare la situazione: l'assalto si trasforma in un assedio, i tentativi di attacco falliscono, si combatte da sei ore in una giornata torrida, i contingenti sono decimati, i volontari spossati e assetati. Ma anche Bosco ha i suoi problemi: anche le sue truppe sono spossate, e, per di più, col morale molto basso a causa della consapevolezza della sconfitta, per la fuga precipitosa e disordinata. Gli resta la speranza dell'invio da Messina di un nuovo contingente militare per prendere alle spalle i volontari, ma intanto deve resistere, per cui decide di serrarsi nel Castello con tutte le sue truppe, in attesa dei rinforzi che continua a sollecitare e non potrà ricevere. Così, qualche ora dopo mezzogiorno, alla intensa fucileria borbonica segue uno strano silenzio: dalle mura non viene più uno sparo, da dietro la porta serrata non si sente venire alcun rumore. I garibaldini sospettando una trappola, indugiano: passano così un paio d'ore, fino a che alcuni volontari avanzando dalla parte del mare penetrano in città e scoprono che essa è deserta. Alle loro grida di giubilo, si dà l'assalto alla porta, che viene sfondata, così i garibaldini si riversano nella città, vuota di abitanti da cinque giorni e, da poche ore, vuota di nemici. Non si combatte più. Solo qualche cecchino rimasto indietro, isolato, spara dal tetto del Carmine o da un balcone, e qualcuno insinuerà che erano milazzesi borbonici che sparavano sui liberatori.

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    Ma, mentre davanti alla Porta di Messina i volontari sono bloccati dal fuoco borbonico, che succede sull'ala sinistra, sul litorale di ponente? E' questo il momento in cui l'attenzione dei due comandanti si sposta su questo scacchiere, ed esso diventa decisivo per la conclusione della batttaglia. L'avanzata dei garibaldini a levante ha costretto i borbonici ad arretrare anche a ponente per evitare di essere tagliati fuori, e ha permesso ai volontari di venire avanti. Ma Garibaldi si rende conto di un pericolo: Bosco a questo punto può lanciare la cavalleria negli spazi aperti di ponente, attaccare i volontari che avanzano, prendere alle spalle le Camicie Rosse ammassate attorno al Ponte. Ma anch'egli ha una carta da giocare: incrocia, a sua disposizione, davanti alla spiaggia di Barcellona, una pirocorvetta. Si tratta di una nave da guerra dalla storia tormentata: nell848 il governo rivoluzionario siciliano l'aveva acquistata dagli inglesi battezzandola "Indipendente", ma dopo la sconfitta siciliana del '49 era stata requisita dal governo napoletano e rinominata "Veloce". Ora il suo capitano, Anguissola proprio da Milazzo l'ha portata Palermo consegnandola a Garibaldi che l'ha ribattezzata col nome dell'ungherese Tukòry, caduto a Palermo, e affidata al capitano Liparachi. Finora, considerato il campo di battaglia, non è stato possibile utilizzarla, ma è giunto il suo momento: Garibaldi ordina alla nave di avvicinarsi al litorale che oggi ne ha il nome, si fa portare in barca a bordo, e sale sull'albero per osservare l'area piatta che si estende a ponente delle mura della città. Coglie così l'ultima mossa che sta giocando Bosco: una carica di cavalleria. Vede lo squadrone uscire e galoppare verso sud, lo ferma con una scarica dei cannoni della nave, lo costringe a rientrare precipitosamente in città, scambia una serie di colpi con l'artiglieria del Castello, quindi ritorna a terra per predisporre l'attacco che deve portare alla conquista della città. Ma intanto Bosco, consapevole di non poter più restare nella città bassa, esposto non solo alla prosecuzione dell'offensiva garibaldina ma anche ai cannoni del "Tukòry", decide di ritirarsi nel forte, dove potrà attendere al sicuro l'invio di nuove truppe che continua a chiedere al comandante di Messina, il gen. Clary, ignorando che le logiche della politica estera napoletana non ne concedevano.

     

    Matteo Nardi

    I garibaldini entrati in città non dovettero combattere per le strade di essa, come qualcuno scrisse, perché i borbonici si erano già ritirati nel forte, ma corsero ugualmente rischio di vita perché i cannoni del castello tiravano a mitraglia sulle due principali strade: la Marina e la via "di dietro", l'attuale via Umberto In quest'ultima una palla colpì di rimbalzo il gen. Cosenz, senza però gravi conseguenze. Nella Marina, invece, si ebbe un morto, l'unico caduto dentro le mura della città, e fu un milazzese: Matteo Nardi. "Con sprezzo eroico di ogni pericolo, armato di fucile e con bandiera spiegata, fece scudo a me col suo corpo, cadendo avvolto nel drappo tricolore al grido di Viva l'Italia!". Così descrisse la morte di questo "eroe popolano" Giacomo Medici che Nardi, scortava orgogliosamente al suo ingresso nella Marina, all'inizio della quale venne colpito a morte dalla mitraglia borbonica del "castello ancora fulminante". Le non molte notizie che abbiamo di lui tramandano il profilo di un vecchio liberale, carbonaro nei suoi anni più giovani, impegnato nella vita pubblica della sua città, ardente di amor patrio nonostante la sua età per i tempi avanzata. Non fu l'unico patriota ad accogliere entusiasticamente i garibaldini. Ma probabilmente molti di loro -soprattutto quelli arrivati da pochi giorni, o addirittura da poche ore- saranno rimasti sconcertati nel constatare che quasi nessuno veniva ad accogliere i "liberatori", e avrà pensato che l'abbandono della città da parte dei milazzesi fosse un atto, se non di ostilità, almeno di disinteresse nei loro confronti. Non sapevano che la città si era svuotata non al loro arrivo, ma appena avevano visto avvicinarsi le truppe di Bosco. Quindi, se atto di ostilità c'era stato, esso era stato diretto contro il governo borbonico, non contro i garibaldini. D'altra parte, poiché in città sono rimasti solo pochissimi abitanti, soprattutto esponenti del Comitato cittadino, dapprima ad accogliere i volontari, sono pochi patrioti che, con in testa Stefano Zirilli, li aspettano nel piano della Pietà. Poi, man mano che l'artiglieria borbonica diminuisce la sua aggressività, altri milazzesi vengono fuori dalle case, sventolano il tricolore, gremiscono il Piano del Carmine, festeggiano i volontari, distogliendoli perfino dai loro doveri militari e offrendo loro leccornie che rischiano di peggiorare le condizioni sanitarie dei feriti.

    Sotto le mura del Castello.

    Nel tardo pomeriggio, da tutte le strade della città occupata, i garibaldini salgono verso il Castello. Lì, in uno spazio insufficiente a contenerli, sono stipati almeno 5000 uomini, centinaia di cavalli e muli, in precarie condizioni igieniche. Benché ormai la sua efficienza militare sia superata, dall'esterno il Castello appare imponente e inespugnabile, con le sue alte muraglie, i suoi baluardi, i cannoni sopra gli spalti. I volontari lo circondano, lo controllano dalle piccole alture circostanti, cercano di attaccarlo a fucilate. Particolarmente efficaci i colpi sparati dalla torre Ragusi, detta il mulino a vento, da cui si può colpire l'interno del castello e infatti ci sono colpi che vanno a buon segno. Per alcune ore della sera continua il duello delle due fucilerie, ma poi si sospende. I garibaldini formano barricate sotto il castello, i siciliani ne controllano l'uscita dal convento dei Domenicani. Altri si sono sistemati della Badia del SS. Salvatore e nel convento dei Cappuccini. Inizia così l'assedio del Castello. Scende la notte, molti volontari dormono spossati sulle banchine della Marina cercando refrigerio dopo la calura del torrido giorno. Per le strade della città si sentono qua e là "gran tonfi e canti sfrenati": effetti delle "prelibate bottiglie rinvenute nelle cantine" dirà Bandi sdegnato con "le caterve dei birboni che profittando delle fatiche nostre erano in Milazzo a far d'ogni lana un peso", e il giorno dopo riferisce a Garibaldi che "alcuni furfanti hanno scassinato l'uscio di qualche casa e vanno tuttora rubacchiando per la città": un tentativo di attenuare la gravità del saccheggio che durante la notte colpisce soprattutto i palazzi e i magazzini dei proprietari, ma anche le chiese, i circoli, e perfino le case più povere abbandonate dai loro abitanti rifugiatisi al Capo.

    La Chiesa di S. Maria Maggiore

    La chiesa di Santa Maria Maggiore è un altro dei luoghi del mito garibaldino, che ha certo un fondamento reale nello spirito semplice generoso dell'Eroe, ma si è arricchito della descrizione oleografica che Alexandre Dumas ha lasciato del sonno dell'Eroe sui gradini della chiesa. Un'altra "leggenda" che si accompagna a quella della "lotta di giganti": il condottiero che, come un guerriero antico, combatte in prima fila con i suoi soldati, e poi, sdegnando gli inviti dei notabili, cena con pane e acqua, e si addormenta "col capo appoggiato sulla sella, spossato di fatica". E Dumas conclude: "Io mi portava a 2300 anni fa, e mi trovavo al cospetto di Cincinnato". Con retorica efficacemente contenuta scriverà, vent'anni dopo, Tommaso Cassisi: "Meritava un tempio / ne concedette appena la soglia / al corpo affaticato." In realtà a Dumas, che, appena sbarcato, chiedeva notizie di Garibaldi, era stata indicata la casa del presidente del comitato rivoluzionario milazzese, Stefano Zirilli, il quale aveva offerto una cena agli ufficiali, ma Garibaldi non c'era: entrato in città, aveva percorso tutta la marina, fino alla chiesa di Santa Maria Maggiore, sul cui sagrato sia fermato. Preoccupato per una possibile ripresa delle ostilità, aveva scelto quel luogo, non solo perché era al riparo dai tiri dell'artiglieria del castello, ma anche perché da lì era facile controllare sia il mare sia la via litoranea di Messina, da dove avrebbero potuto arrivare rinforzi a Bosco.
    Al di là della retorica letteraria, tutte le testimonianze concordano sul fatto che Garibaldi passò effettivamente la notte sul sagrato della chiesa: qualcuno riferisce che dormì con la testa appoggiata alla sella, qualcun altro aggiunge che passò parte della notte parlando con i suoi ufficiali, qualche altra ancora che dormì su un materasso steso per terra. E la mattina inviterà un inorridito Bandi a far colazione con pane e tonnina.

    La Resa e l’imbarco dei Borbonici.

    La banchina dell'antico porto nella Marina è il teatro dell'ultima presenza borbonica a Milazzo: il 25 luglio un'immensa folla di garibaldini e di milazzesi rientrati in città vi si ammassa per vedere scendere dalla via S. Francesco i borbonici che si sono arresi e vanno a imbarcarsi per Napoli. Garibaldi assiste dalla casa di Stefano Zirlili. "Il corpo napoletano -scrive un volontario- preceduto dalle sue bande musicali passa in ranghi serrati, onorato del militare saluto. Le tre fregate napoletane destinate al trasporto dei partenti salutano collo sparo dei loro cannoni il porto. Le campane suonano a distesa. Tutto è festa. I milazzesi sono lietissimi." All'apparire di Bosco, però, "sebbene ogni opera usasse Garibaldi onde im-pedirlo, mille imprecazioni avventò la plebe contro il comandante borbonico", racconta Piaggia, che definisce ingiusto il trattamento riservatogli perché si era comportato correttamente con la città (impedendo al suo arrivo che fosse saccheggiata e rinunciando a bombardarla quando si era chiuso nel castello) e perché era da rispettare se "sentiva di dover essere fedele al proprio giuramento, anche se male ispirato". In realtà su Bosco era stato convogliato l'odio che da decenni si nutriva contro il regime borbonico. La resa gli pesava ma sin dall'inizio si era reso conto dell'impossibilità di resistere. Dapprima, la sera della battaglia, aveva suggerito a Clary di fare sbarcare qualche battaglione alle spalle dei garibaldini, "diversamente saremo costretti a capitolare". Il giorno successivo riferendo che ha pochi viveri, che l'acqua è "marcita", e c'è insufficienza di mezzi difesa, chiedeva che il governo trattasse "direttamente la capitolazione". E mentre rifiuta le umilianti condizioni proposte da Garibaldi, il 22 telegrafa a Clary di "ottenere subito la capitolazione con onore." Così arriveranno le tre fregate e le truppe lasceranno la Sicilia. Era già successo nel '48, ma allora, dopo, erano tornate. Stavolta non torneranno più.

     

    Palazzo Proto

    Palazzo Proto, nel Piano del Carmine, Quartier Generale di Garibaldi, non fu solo uno degli edifici che ospitarono i garibaldini (come palazzo Bonaccorsi in via S. Giacomo dove alloggiarono Medici, Guerzoni e Simonetta, o il convento di S. Domenico che ospitò i siciliani di Dunne o villa Bonaccorsi, al Capo, dove soggiornarono alti ufficiali), ma fu sede di un incontro decisivo per il proseguimento dell'Impresa garibaldina e la stessa unificazione nazionale. Dopo l'imbarco delle truppe borboniche, Garibaldi scrive che gli "sembra di avere un piede in Calabria": ha fatto censire e raccogliere tutte le piccole im-barcazioni disponibili, e si prepara non solo ad attaccare Messina, ancora in mano ai borbonici di Clary, ma a sbarcare nella penisola per puntare su Napoli, e, se possibile, su Roma. Ci sono, però, problemi di politica internazionale e pressioni diplomatiche sul Regno di Sardegna perchè (avendo il governo di Napoli dichiarato la sua disponibilità ad abbandonare la Sicilia) fermi Garibaldi, il quale -non lo si dimentichi- aveva assunto la Dittatura nel nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia. Da Torino parte quindi in missione il conte Litta Modigliani, che incontra Garibaldi a Palazzo Proto, di cui descrive con ammirazione l'arredo e con sentimento ambivalente il disordine creato dalla presenza dei volontari: "ragazzaglia mal vestita, senza istruzione e disciplina, che però sa farsi ammazzare e va innanzi sempre". Litta consegna a Garibaldi una lettera ufficiale in cui il Re, rimarcando la sua disapprovazione per la Spedizione dei Mille, lo invita a "rinunziare ad ogni ulteriore impresa contro il Regno di Napoli" se esso lascerà la Sicilia libera di scegliere il suo destino. E' quanto la diplomazia, soprattutto francese, vuole sentire, ma Vittorio Emanuele -peraltro sapendo anche che Garibaldi ben difficilmente ubbidirà- gli invia una seconda lettera, privata, in cui gli suggerisce di rispondere che, pur essendo "pieno di devozione e di reverenza pel Re, i suoi doveri verso l'Italia non gli permettono di impegnarsi a non soccorrere i  Napoletani" se essi chiederanno il suo aiuto. E Garibaldi risponde così. Ora sa che, oltre alla determinazione sua e dei suoi volontari, ha anche l'avallo del Re. Dopo la vittoria di Milazzo, la strada verso Napoli è libera: il collasso -morale prima ancora che militare e politico- del regime borbonico, la ribellione di intere regioni, l'attesa e le speranze dei Napoletani gli consentiranno di precedere il suo esercito in carrozza. La cruenta giornata di Milazzo è stata decisiva per l'unione fra Nord e Sud.

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