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I luoghi della memoria a Milazzo, l'eroe Alessandro Pizzoli

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La Battaglia del 20 Luglio 1860

I luoghi della battaglia del 20 luglio in una carta inglese della fine degli anni Ottanta dell'800: posteriore -e meglio tracciata- rispetto a quella pubblicata da Zirilli nel 1878, è databile fra il 1887 (anno in cui è documentato il disegno del "molo nuovo" con l'estremità deviata) e il 1889 (anno dello scalo ferroviario, che qui non figura).

E' ricca di informazioni sulla vegetazione (oliveti, vigneti, canneti), il posizionamento dei cannoni borbonici (one gun, 2 guns, ecc.), le località e la viabilità citate nelle descrizioni della battaglia: la strada principale che collega Milazzo ad Olivarella (con l'angolo che essa fa dove da Acquaviole piega verso il Parco) e le stradine minori indicate con una linea tratteggiata (la stretta via dei Mulini, Mills Lane, in contrada Mangiavacca, o quella del Ciantro, definita "via di fuga", bunk road), la Fattoria Zirilli di Gelso, la Tonnara del porto (vicino alla quale si svolse il duello fra Garibaldi e Giuliani), il "Ponte", la posizione del "Tukory" quando cannoneggiò la cavalleria borbonica, le baracche del "Campo inglese, Porta Messina abbattuta dai garibaldini, la "chiesa sui cui gradini dormì Garibaldi", il "vecchio mulino a vento" sul "colle del Mulino", da cui i volontari spararono sul Castello.

Il Risorgimento a Milazzo

A Milazzo è indubbiamente il Castello il luogo emblematico della memoria risorgimentale (come, d'altra parte, di tutta la storia della città). Da esso, nel corso dei secoli, chi dominava la Sicilia aveva soggiogato e controllato i milazzesi. Su di esso -fatta capitolare la guarnigione borbonica con le sole loro forze- i milazzesi inalberarono il 25 febbraio 1848 il tricolore. E, dodici anni e cinque mesi dopo entrando in esso dopo una cruenta vittoria e un assedio di alcuni giorni, Garibaldi completò la liberazione della città, e, di fatto la conquista dell'isola aprendosi la strada verso Napoli. Ma nel '48, dopo la liberazione dal governo borbonico, i protagonisti milazzesi di quella rivoluzione non si insediarono nel Castello, perché chiamati a Messina a presidere il Comitato di guerra (Domenico Piraino), a Palermo a dirigere a il Ministero della guerra (Stefano Zirilli) o il Giornale Officiale di Sicilia (Francesco Carlo Bonaccorsi).

E nel '60 non si combatté attorno al Castello, e neppure all'interno della città, dove oggi lapidi e monumenti ricordano protagonisti e momenti di quella durissima battaglia. Fu nelle campagne tutt'intorno alla città, nei vigneti, nei canneti, nelle viuzze rurali, che -per usare le parole di Garibaldi- "i Figli di tutte le provincie italiane consacrarono la loro nobile vita" . Là giovani, animati da un ideale purissimo, da uno slancio di passione patriottica -che oggi abbiamo perfino pudore a ricordare temendo di cadere nella retorica- furono falciati dalla mitraglia e dalla fucileria delle truppe borboniche di Bosco, che si batterono anch'esse con coraggio e dignità, ma per una causa che appariva ormai condannata dalla Storia, superata dal risveglio della coscienza nazionale.

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Mentre non emergono luoghi emblematici della rivoluzione del '48 (se non il Castello e l'antica fontana del Mela, dalla quale la polizia borbonica era spesso costretta a togliere il tricolore innalzato durante la notte), per il 1860 l'itinerario garibaldino non può che cominciare, quindi, dalle contrade della Piana dove -come oggi abbiamo dimenticato- fu versato tanto sangue per arrivare al Castello . Ed è per questo che abbiamo scelto per la copertina e per questa pagina due immagini d'epoca, magari ingenuamente oleografiche e retoriche, ma in cui appaiono insieme, appunto, il Castello e Garibaldi.

Del '48, però, se non i luoghi, resta luminoso un nome, quello di Riccardo D'Amico, arruolatosi nella Legione siciliana in risposta all'appello dei "fratelli calabresi", e morto a 22 anni nel carcere borbonico di Cosenza. A lui, e a un altro giovane, del nord, caduto nel '60 a Milazzo in aiuto dei "fratelli siciliani", di cui si conosce solo il nome, Alessandro Pizzoli, è dedicata questa pubblicazione. Ed anche a un terzo caduto: un vecchio, animato dallo stesso giovanile entusiasmo con cui aveva partecipato ai moti del '20 e del '48 e superato la delusione del fallimento: il 20 luglio è colpito dalla mitraglia borbonica mentre, agitando il tricolore, precede Medici. Anche al loro sacrificio dobbiamo l'Unità della nostra Italia.

La strada da S. Pietro a Contura

La strada da S. Pietro a Contura e le campagne circostanti costituiscono il primo, cruento terreno di scontro della battaglia del 20 luglio. Durante la notte Medici ha appreso da informatori di San Pietro che Bosco sta posizionando truppe e artiglieria fuori delle mura cittadine. Poco dopo le tre nel campo di Meri suona la sveglia, e all'apparire del giorno due colonne muovono verso Milazzo.

Una di queste, comandata da Malenchini si dirige verso San Pietro e per la strada che da lì porta al "Ponte". E' preceduta dai volontari messinesi di Martines i quali, intorno alle 6, nei pressi di Contura, entrano in contatto con gli avamposti borbonici. Inizia un duello di fucileria, cui si aggiunge, quando i volontari cercano di avanzare, l'artiglieria borbonica, che causa gravi perdite anche agli altri garibaldini accorsi al comando di Bandi, che si stendono fino la spiaggia per evitare di essere accerchiati, tentano assalti alla baionetta, erigono una barricata sulla strada. Ma la dura reazione dei regi li costringe a ritirarsi, lasciando il terreno cosparso di morti e di feriti orrendamente dilaniati dalla mitraglia: scene descritte con raccapriccio da tutte le testimonianze pervenuteci.

Molti giovani volontari ricevono il battesimo del fuoco in un drammatico momento di sbandamento, quando, nonostante molti atti di coraggio, la ritirata si fa disordinata e rischia di trasformarsi in una disfatta che scoprirebbe l'ala sinistra dello schieramento garibaldino esponendo al rischio di accerchiamento il centro, costituito dal villaggio Grazia, dove intanto è arrivata la seconda colonna. Garibaldi, giunto con essa, sentito il fragore della battaglia e resosi conto del grave pericolo, invia rinforzi e affida il comando dell'ala sinistra a Cosenz, che riesce a organizzare la ritirata in modo ordinato e attestare le truppe su una linea arretrata che va da S. Pietro alla fattoria Zirilli di Gelso.

Qui i volontari resisteranno validamente ai regi, che non riusciranno più ad avanzare, fino a quando l'offensiva dei garibaldini al centro e a destra, poco prima di mezzogiorno, li costringerà ad arretrare su tutto il fronte.

Da Grazia a Parco

L'altro terreno di scontro è l'area compresa fra Grazia, Mangiavacca e Parco, parte della quale oggi occupata dalla raffineria. La seconda colonna, la più consistente numericamente, uscita all'alba da Meri si era diretta ad Olivarella e da lì aveva seguito la rotabile per Milazzo. La comandava Simonetta e con essa erano Medici e Garibaldi. Ma, arrivato a Grazia quando nella zona di Contura già infuriava la battaglia, Garibaldi, non riuscendo a capire cosa stesse succedendo in quella "pianura perfetta, coperta di alberi, vigneti canneti in cui non si potevano scoprire le posizioni del nemico", salì sul tetto di un edificio per osservare il campo di battaglia e cambiò il suo piano.

Rafforzò, come si è visto, la sinistra in pericolo, affidandola a Cosenz, e, poiché alla sua destra il nemico, "in possesso di una linea di case, formava martello e fiancheggiava con fuoco micidiale il centro", abbandonò il primitivo progetto dell'attacco al centro e diresse la manovra offensiva verso levante per snidare i borbonici che sparavano dai loro ripari dietro i muri che fiancheggiano le strade e gli edifici rurali. Da Bombolo ai Mulini di contrada Mangiavacca i garibaldini attaccano alla baionetta ma sono costretti a correre allo scoperto, fra vigneti e canneti, e vengono falcidiati dall'artiglieria e dalla fucileria borbonica. In particolare, causa danni gravissimi un cannone posto all'inizio di via Pendina. Garibaldi fa affluire le truppe di riserva ma i borbonici di Bosco si battono con grande energia e le sorti della battaglia sembrano pendere a loro favore.

Allora Garibaldi gioca l'ultima carta: aggirare a destra i nemici e impadronirsi delle loro bocche da fuoco, o almeno costringerli a indietreggiare. L'attacco causa nuove perdite gravissime ai garibaldini ma, dopo parecchie ore di combattimento, i borbonici sono costretti a ritirarsi verso Parco, fino all'Angolo, davanti all'attuale Silvanetta.

Le due illustrazioni d'epoca di questa pagina possono dare l'idea della durezza dello scontro e del numero dei morti e dei feriti, ma non c'è alcuna immagine che raffiguri il fatto che rievocheremo. Anzi, non vi sarebbe neppure il ricordo di esso se non ne avesse riferito Giuseppe Piaggia, storico milazzese che, accorso da Palermo, nei giorni successivi alla battaglia raccolse -per la ricostruzione di essa che sarebbe uscita qualche settimana dopo- informazioni di prima mano dai feriti di entrambe le parti ricoverati negli ospedali di Milazzo e Barcellona. Così venne a conoscenza di un atto eroico, che sbloccò una situazione di stallo pericolosissima per i garibaldini esposti alla mitraglia di un cannone posto all'Angolo, nello slargo davanti al Silvanetta, che spazza la stradina del Mulini (di cui oggi resta la parte finale: via Mangiavacca) ed al rischio di un attacco della cavalleria borbonica.

Alessandro Pizzoli, il sacrificio di questo grande Eroe

Ma lasciamo la parola allo stesso Piaggia: "Siamo al punto di ricordare a' posteri il nome di un eroe. Uno dei volontarj, Alessandro Pizzoli (cfr La battaglia di Garibaldi a Milazzo: la figura dell'eroe Alessandro Pizzoli ), rivoltosi ai suoi compagni, sommesso diceva: "Appiattatevi dietro al muro a fianco il cannone; salterò io, solo, sulla via; l'affronterò io la mitraglia, io solo; sarò fulminato; ma se ratti voi sarete a slanciarvi sugli artiglieri, il pezzo sarà vostro".

Ed egli con la febbre nelle vene già piomba dal muro sulla via de' Molini; stretto tien con la sinistra il fucile, il berretto con la destra; va in faccia ai nemici e "Assassini, grida, non uccidete i vostri fratelli!".

 è un genio che raccoglie tutta la potenza della vita; qual fulmine corre, e s'immola vittima preziosissima. Trae la bocca da fuoco; le schegge lo rendono in brani.

Delle membra di tant'uomo non rimangono al suolo che parte dell'occipite, del busto e di un braccio. Che così si chiamasse l'uomo del fatto che narriamo non ci pare dubbio, sendo state trovate in una tasca del suo panciotto due lettere mezzo arse portanti per indirizzo il nome di Alessandro Pizzoli; a qual corpo de' volontarj appartenesse ci è però tuttavia ignoto.

Questi avanzi del generoso volontario -conclude Piaggia- li conserviamo nodi, fiduciosi come siamo di poterli un giorno chiudere nel monumento già deliberato dal Consiglio Comunale." Il sacrificio di Pizzoli segna uno dei momenti di svolta della battaglia: i suoi compagni "come leoni si slanciarono su gli artiglieri nemici e guadagnarono il pezzo. Ecco in piena rotta tutta la sinistra de' borbonici."

Fra la vecchia Tonnara ed il Ponte

Impadronitisi del cannone dell 'Angolo, i volontari incalzano i borbonici in precipitosa ritirata lungo l'attuale via Acquaviole. Ed accade qui -non al "Ponte", ma fra la tonnara del porto, davanti alla stazione ferroviaria oggi dismessa, e il "Ponte", all'incrocio fra via dei Mille e via Migliavacca- l'episodio più celebrato della battaglia, che entrerà nella leggenda esaltato dalle cronache, cantato da poeti, raffigurato da innumerevoli stampe, immortalato dalla Lettera di Dumas e dalla lapide dettata da Pascoli. Per cercare di fermare l'avanzata irresistibile dei garibaldini e strappargli un altro cannone di cui si sono impadroniti, Bosco ordina una carica di cavalleria.

Andando all'attacco, i cavalieri "passano come un turbine" e non si curano dei garibaldini che cercano di appiattirsi al muro e alle siepi che costeggiano la strada, ma quando, respinti dalla fucileria dei volontari sono costretti a tornarsene indietro al galoppo, scoprono che fra i pochi garibaldini che si sono trovati in prima linea c'è qualcuno la cui immagine è a tutti ben nota. Canta Pascoli nella lapide posta sul "Ponte": "Lo squadrone dei regi usseri / s'avventò al galoppo contro una Camicia Rossa / a piedi quasi sola / e il loro capitano Giuliani / calò fulminea la sciabola / su quel capo dalle lunghe ciocche bionde / l'Uomo Rosso parò e uccise / altri uccise Missori altri Statella/ che Colui quasi solo / era il Dittatore era Garibaldi era l'Italia." Garibaldi racconterà senza enfasi: "Oltrepassato dai caricanti cavalieri ed obbligato a gettarmi in un fosso laterale alla strada, mi difesi con la sciabola in mano" e "Missori col suo revolver mi sbarazzò del mio antagonista". Intanto accorsero altri e "il nemico piegò e si ritirò a precipizio verso Milazzo". Ma Alexandre Dumas (sbarcato a Milazzo la sera, al termine della battaglia che aveva osservato dalla sua goletta) descriverà l'episodio come un duello omerico, anzi una "lotta di giganti", e i cantastorie lo narreranno con gli stessi accenti usati per esaltare le mirabolanti gesta dei Paladini di Francia.
  continua La Battaglia di Milazzo 2
 

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