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In occasione del 150° Anniversario dei Mille

I Milazzesi e la battaglia di Milazzo

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di BARTOLO CANNISTRA'

 - tratto da Milazzo Nostra n. 26  - Editoriale il Punto

Il webmaster, dott. Claudio Italiano,  ringrazia il saggista prof. Bartolo Cannistrà, per il privilegio avuto di pubblicare il brano.

Forse a qualcuno il taglio di questa ricostruzione dell'apporto dato a un momento importante dell'Impresa dei Mille dai milazzesi, delle accuse rivolte al loro comportamento e del trattamento riservato alla città e a suoi  esponenti di spicco dopo la battaglia, potrà sembrare non adeguato ad una celebrazione. Noi, però, riteniamo, che il modo migliore per ricordare il 150° anniversario di questo snodo fondamentale nel difficile processo di costruzione della nostra Unità nazionale non possa essere la pubblicazione di un'agiografica esaltazione del suo carattere epico, ma una documentata analisi critica della sua realtà storica, che è complessivamente così luminosa da non potersi temere che l'emersione di eventuali ombre possa ridurne la rilevanza.   L'editoriale di questo numero, rivendicando la necessità che, in una riconsiderazione storica del Risorgimento nella sua dimensione "reale", non si perda di vista lo "spirito del tempo" caratterizzato da grandi idealismi e slanci eroici, dice chiaramente che non intendiamo affatto confonderci con certo disinvolto e approssimativo "revisionismo storico" (motivato, in realtà, da contingenti, e spesso poco nobili, obiettivi "politici"), ma che cerchiamo di recuperare la complessità di questo grande momento storico, di comprenderne le difficoltà, le contraddizioni, i limiti, anche gli errori, che sempre accompagnano ogni fenomeno prodotto dall'uomo, senza con questo volere neppur lontanamente tentar di ridimensionare significato storico e ideale del processo cui dobbiamo il nostro moderno Stato unitario.

Nel caso specifico, questo nostro tentativo di ricostruire con obiettività il comportamento dei milazzesi in quel luglio del '60 e negli anni precedenti, di riferire e valutare le accuse rivolte loro e le ragioni di esse, di rievocare le vicende amare della notte della battaglia e dei giorni successivi, non è un "parlar male di Garibaldi", né un oltraggio a Milazzo, ma uno sforzo di comprendere la realtà del passato, nelle sue luci ma anche nelle sue inevitabili ombre, come la ricerca storica deve sempre fare. E auspichiamo che non si ripeta quanto è avvenuto a uno scritto pubblicato qualche anno fa su questa rivista, da cui sono stati estrapolati frammenti slegati dal contesto, utilizzandoli per far dir loro I'opposto di quel che volevano significare, veicolando in Internet un'immagine di Garibaldi antitetica a quella che i documenti delineavano.

Strade e lapidi garibaldine

Non v'è in ltalia città importante che non abbia una via Milazzo, di solito in una zona le cui strade sono dedicate alle località legate al Risorgimento, e, in particolare alle "città garibaldine". Ma Milazzo è veramente una città garibaldina? e, se sì, lo è per il contributo che ha dato all'impresa dei Mille, o semplicemente perché nel suo territorio si combatté una delle battaglie più cruente e decisive di quell'lmpresa?

 Insomma, la città e i suoi abitanti furono solo spettatori o anche attori di un evento storico che è fra i momenti fondativi dell'Unità italiana? Chi percorra oggi le vie di Milazzo non potrebbe avere dubbi: è una città garibaldina, orgogliosa di esserlo, gelosa custode della memoria del suo eroico comportamento: lo dicono i nomi delle vie che ricordano i comandanti garibaldini (e i patrioti milazzesi che collaborarono con loro), le targhe che indicano i luoghi dove furono ospitati, le lapidi che segnano il cammino delle Camicie Rosse.

 Questa caratterizzazione garibaldina della toponomastica cittadina comincia a una ventina d'anni dalla storica giornata del 20 luglio, quando nel 1882, dopo la morte di Garibaldi, si delibera di dare il nome dell'Eroe a quella che fino ad allora era stata indicata semplicemente come la "Marina", e di apporre, al termine di essa, sul prospetto di S. Maria Maggiore una lapide con l'epigrafe dettata da Tommaso Cassisi: "Debellata l'oste borbonica / qui riposava Giuseppe Garibaldi /nella sera del XX Luglio MDCCCLX / Meritava un tempio / Ne concedette appena la soglia / al corpo affaticato". E nella Marina Garibaldi, davanti alla casa di Zirilli legata all'impresa garibaldina, si decise di collocare il Monumento ai Caduti di quella battaglia. Ma l'iter del progetto fu lungo e travagliato e giunse a compimento solo quindici anni dopo. Se ne era cominciato a parlare subito l'unificazione; nel 1863 lo storico cittadino Giuseppe Piaggia aveva invano sollecitato il sindaco Domenico Ryolo; nel 1877 si era stato costituito un Comitato cittadino  e il Sindaco aveva scritto a Garibaldi invitandolo ad esser lui a dettar il testo dell'epigrafe.

L'Eroe aveva acconsentito : "ln quest'angolo dell'eroica terra/ dei Vespri consacrarono la nobile / loro vita i figli di tutte le province italiane / annientandone la secolare tirannide". Parole che rimasero sulla carta ancora per vent'anni, fino a quando un nuovo Comitato, presieduto da Tommaso Cassisi, riuscì finalmente a realizzare il monumento: fu scelto il progetto di Francesco Greco (ispirato alla Statua della Libertà, con due bassorilievi raffiguranti lo scontro del "Ponte" e il riposo di Garibaldi davanti alla chiesa di S. Maria Maggiore) e il monumento fu finalmente inaugurato, il 20 Luglio 1897, da Francesco Crispi. Gioacchino Chinigò scrisse il discorso celebrativo "Nel 37° annuale della battaglia di Milazzo". In realtà,  dapprima, si era  pensato che i l sito più  adatto fosse quello in cui Garibaldi aveva rischiato la vita, quando, appiedato, era stato attaccato dalla cavalleria borbonica: nel luogo dove, all'epoca, c'erano gli edifici di all'epoca, c'erano gli edifici di una tonnara, e oggi c'è la piazza della vecchia stazione, un po' prima di arrivare al "Ponte". Essendo stata poi preferita la Marina, nel Cinquantenario della battaglia si decise che nel luogo dove si era svolta la "lotta di giganti"  -come la definì Alexandre Dumas- si collocasse una lapide per ricordare I'episodio. A dettare il testo venne invitato Giovanni Pascoli, che aveva insegnato Letteratura latina nell'Università di Messina fino al 1903, che a Milazzo nel l90l aveva tenuto, nel Teatro Comunale, una conferenza sul "Classicismo letterario", e che era rimasto legato a questo territorio (nel nostro cimitero ci sono due sue epigrafi sulla tomba di messinesi morti nel terremoto del 1908).

Il poeta accetto inviando un testo di alto eloquio, anche se a tratti piuttosto retorico e con qualche riferimento storicamente inesatto (quelli a al "Ponte" e a Statella): "Questo è il Ponte di Milazzo / O tu che nei secoli dei secoli ti arresti e guardi / E' il luogo ove il XX luglio del MDCCCLX / Fu sangue e morte e strage / E pericolo estremo dell'Italia appena risorta/ Qui / Tornando da una carica vittoriosa / Lo quadrone di regi usseri / S'avventò al galoppo contro una camicia rossa / A piedi quasi sola / E il loro capitano Giuliani / Calo fulminea la sciabola / Su quel capo dalle lunghe ciocche bionde / L'uomo rosso parò e uccise / Altri uccise Missori altri Statella / Guide e carabinieri accorsero ad uccidere / Ché colui quasi solo / Era il Dittatore era Garibaldi era l'ltalia / O vita figlia del sangue / Qui i nemici al lampo delle armi / Si riconobbero fratelli / Si ammirarono cadendo e si amarono caduti / E dalla consanguinea puntaglia / Nacque l'esercito uno e grande / Che veglia concorde / Sull'Api comuni e lungo il mare nostro." Il 20 Luglio l9l0 la lapide fu collocata sul "Ponte", all'incrocio fra le vie XX Luglio e Migliavacca, ma il posto era sbagliato: perche l'episodio era avvenuto, come già detto, qualche centinaio di metri prima del "Ponte". Qualche decennio fa, nel centenario della morte di Garibaldi (1982), il Comune, ritenendo di dover dare "alla significativa epigrafe pascoliana una nuova collocazione monumentale" sostituì l'antica lapide marmorea con un nuovo manufatto poco significativo, sempre collocato al "Ponte". Le due lapidi, questa e quella di S. Maria Maggiore, che segnano i due momenti della giornata più celebrati dalla vulgata epica ed oleografica dei letterati, dei memorialisti, dei pittori, delimitano, all'incirca, la toponomastica  garibaldina che fino ad allora era stata limitata al centro cittadino (senza conservare memoria delle fasi più drammatiche e cruente della battaglia, che si svolsero nelle strade fuori della città e nelle più vicine campagne della piana).

Tra la fine dell'800 e I'inizio del '900, venne costituendosi una sorta di asse risorgimentale, che dalla piazza antistante la vecchia stazione ferroviaria arriva, lungo il litorale di levante, fino al termine della Marina. Comincia come Via XX Luglio (che originariamente giungeva fino all'antica Porta Messina), poi, dall'incrocio con la strada che ricorda il luogo dove fu ferito a morte il maggiore Filippo Migliavacca, diventa via dei Mille, e quindi Largo dei Mille. Da qui si passa a via Cavour, e, attraverso piazza Mazzini, alla larga via dedicata al milazzese Domenico Piraino (protagolista del '48, ministro del governo dittatoriale garibaldino, primo deputato milazzese nel Parlamento italiano, e poi senatore). A questo punto c'è una breve interruzione del percorso risorgimentale, per la permanenza dei toponimi storici di Piano del Carmine (dal 1936, Piazza C. Duilio) e piano Baele, e poi si torna all'itinerario garibaldino con via Giacomo Medici, l'antica via S. Giacomo che il generale percorse per arrivare alla Marina Garibaldi.

All'inizio di questa, poi  la prima traversa -che da qui arrivava all'antica Porta Palermo, ma ora nel primo tratto si chiama via Nino Ryolo- fu dedicata al generale Enrico Cosenz (ferito nell'attuale via Umberto I, dove questa strada sbocca), e la successiva prese il nome di a Matteo Nardi,"popolano eroe" -lo definisce l'epigrafe di Gioacchino Chinigò riportata sulla lapide apposta nel 1932- che, mentre agitava a un tricolore, "guidando per questa via / al Castello ancora fulminante / le vittoriose schiere garibaldine / cadeva disquarciato per mitraglia / a pié del generale Medici". Proprio Medici, testimone di quell'episodio, così lo descrisse: "Con sprezzo eroico di ogni pericolo, armato di fucile, con una bandiera spiegata, fece scudo a me col suo corpo, cadendo avvolto nel drappo tricolore al grido di Viva l'ltalia!"

 Alcuni decenni fa, poi, venne denominata via Luigi Tukory il tratto della litoranea di ponente davanti al quale si portò nella fase finale della battaglia battaglia -cannoneggiando la sortita della cavalleria di Bosco- il "Veloce", che passato dai borbonici ai garibaldini, era stato ribattezzato col nome del volontario ungherese caduto a Palermo; e in anni recenti, una nuova via e stata intitolata a Giuseppe Missori, che salvò la vita a Garibaldi nello scontro vicino al "Ponte", mentre altre portano il nome di Bixio (anche se non fu presente a Milazzo) e di due uomini politici che collaborarono con Garibaldi durante la Spedizione, Franccsco Crispi e Agostino Bertani.

 Inoltre possiamo annoverare fra le "strade garibaldine" quelle dedicate ai patrioti milazzesi che ebbero una notevole parte nelle vicende del luglio 1860, oltre che nel Risorgimento siciliano. Stefano Zirilli (è la piccola traversa della Marina su cui si affacciava la sua casa) e Francesco Carlo Bonaccorsi. Infine a tutte le stradine del quartiere nato dalla lottizzazione dell'ex Fondo lmpellizzeri, accanto a piazza S. Papino, vennero dati nomi "garibaldini": Marsala, Calatafimi, Salemi, Volturno, Gaeta, Aspromonte.   Come si vede, pero, le vie e le lapidi citate richiamavano luoghi e protagonisti del 20 luglio, ricordavano che Milazzo fu teatro di quegli eventi, ma (tranne che per Matteo Nardi, Zirilli e Bonaccorsi) poco o nulla dicevano del ruolo avuto dai milazzesi.

La gloria della città sembrava quindi limitarsi all'essere stata teatro della battaglia. Ma, qualche decennio fa, sul prospetto del Palazzo comunale sono state murate due lapidi che riportano frammenti di frasi di Giuseppe Garibaldi e del figlio Menotti in cui si fa esplicito riferimento al comportamento dei milazzesi. L'Eroe -che nell'epigrafe per il monumento si limitava a definire Milazzo 'angolo dell'eroica terra dei Vespri" e ad esaltare i "Figli di tutte le Provincie d'Italia" senza altri riferimenti alla nostra città- in uno dei frammenti (tratto da una lettera a Crispi del 1878) riportato su una di queste lapidi parla, invece, della "riconoscenza che i combattenti del luglio del 1860 devono al generoso popolo di Milazzo", e nell'altro (da un telegramma del 1882 al Ministro dei LL.PP.) indica addirittura la nostra città come "l'Eroica Milazzo". Andando in crescendo, man mano che ci si allontana dalla storica giornata,  nel 1897, il figlio Menotti, esprimendo il suo rammarico per non potere assistere all'inaugurazione del monumento, afferma che "il contegno della valorosa popolazione di Milazzo, patriottico e virile, fu larga parte nell'esito di quella giornata".

Qui siamo ben oltre la semplice celebrazione di una battaglia nel luogo in cui si svolse; c'è un salto di qualità: si celebra una città "eroica", un ' lo generoso, cui i combattenti devono "riconoscenza", una "popolazione valorosa, patriottica e virile". Parole inequivocabili -per quanto estrapolate dal contesto. molto posteriori all'evento e, magari, dettate dalla nostalgia del ricordo o da esigenze celebrative- che. per il fatto stesso di essere riportate su lapidi poste nel luogo istituzionalmente più significativo, sembrano il suggello di un giudizio costante e consolidato. Ma non è affatto così. 

Infatti" solo chi si limitasse a considerare,  toponomastica, lapidi e monumenti, e non conoscesse le vicende e le polemiche che li hanno precedutì,potrebbe attribuire questa cura celebrativa esclusivamente alla vigile memoria di una città che custodisce ed esalta le sue tradizioni e i suoi meriti patriottici. Ma chi conosca le accuse, le dicerie, le maldicenze sul ruolo dei milazzesi in quella giornata, e anzi nel Risorgimento, comprende che strade targhe lapidi e monumenti sono, in certo senso, anche una reazione orgogliosa a velenose polemiche condotte fin dai giorni successivi alla battaglia, un tentativo di esorcizzare, smentire, controbilanciare l'accusa, da più parti rivolta a Milazzo, di essere una "città borbonica", o, per usare il giudizio più celebre, quello di Alexandre Dumas, une ville peu patriote (seppur seguita dalla prudente precisazione limitativa: dit-on).
 

Le accuse ai milazzesi

Quelle voci che gli storici cittadini hanno sempre respinto come infondate e infamanti, cominciano a diffondersi quasi la sera stessa della battaglia, vengono riprese nei giorni successivi da alcuni organi dì stampa, finiscono in libri pubblicati a distanza di decenni e, grazie ad essi, persistono tenaci nella memoria anche di persone colte, in buona fede e non mosse da ostilità nei confronti di Milazzo. Allo scrivente è accaduto di vedere una propria articolata valutazione "interpretata" in modo forzato e unilaterale da un pubblicista cui pure si deve riconoscere grande finezza intellettuale e correttezza. Giovanni Russo, che, nella stesura dell'articolo sui Mille apparso sul Corriere della Sera del 2l ottobre 1987, appariva orientato soprattutto dalle impressioni ricavate dalla lettura di testi come quello di Bandi, sulla base del cui racconto valutava il comportamento dei milazzesi. La verità è che, come in una lettera aperta al Dumas del 27 luglio 1860 scrisse il segretario del comitato rivoluzionario di Milazzo, Antonino Zirilli, quelle voci avevano radici che risalivano almeno al decennio precedente ("aggravando i dolori del nostro servaggio"), e nascevano -oltre che da una certa spocchia del capoluogo nei confronti di un centro minore della sua provincia o da rivalità campanilistiche fra cittadine vicine ma profondamente diverse per storia e caratteristiche- anche da diffidenze forse non legittime, ma certo spiegabili senza far ricorso alla categoria dell'invidia municipalistica. Sono dati di fatto di cui bisogna tener conto, nella consapevolezza che certe difese ad oltranza del patriottismo di un'intera cittadinanza, senza ammettere differenze di posizioni politiche al suo interno, finiscono con l'essere controproducenti, impedendo una visione obiettiva della realtà e un giudizio equanime, che deve sempre tener conto delle luci e delle ombre. D'altra parte era stato lo stesso Antonino Zirilli a scrivere, nella lettera citata: "A chi mi chiedeva 'non ci ha dunque in Milazzo borboniani?'  chiederei anch'io alla mia volta in quante città della Sicilia non ve ne siano, ma oso affermare che proporzionalmente alla popolazione, ve ne abbia qui assai meno che altrove". Alla luce di questa premessa esaminiamo queste,  che il tempo ha cancellato dalla memoria collettiva dei milazzesi, ma che rimangono scritte nei libri, e quindi continuano a pesare, in qualche modo, sull'immagine della città. Cominciamo da Dumas, dal citato passo della celebre "Lettera a Carini", stampata all'indomani della battaglia, che dà un'immagine poco lusinghiera di Milazzo: "Sopraggiunta la notte, mi feci disbarcare, e mentre sentiva ancora gli ultimi colpi di fucile entrammo in Milazzo.

E impossibile di concepire l'idea del disordine e del terrore che regnava nella città, che dicesi poco patriottica. I feriti ed i morti erano sparsi nelle strade, la casa del console francese ingombra di morenti..." Come si vede, poco più che un accenno, un inciso en passant, allo scarso patriottismo di Milazzo, ma parole pesanti (per il nome dell'autore, la grandissima diffusione che la Lettera ebbe in pochi giorni in tutt'Italia e il fatto che la narrazione -fascinosa. quanto spesso approssimativa, e perfino romanzata- finì col diventare quasi il canone obbligato per raccontare gli eventi della giornata) tanto che -sono sempre parole di Antonino Zirilli- avrebbero trasmesso "ai posteri un retaggio di vergogna e di dolore". Eppure, è lo stesso Dumas a prendere le distanze dal giudizio che sta esprimendo: che la città sia poco patriottica non è lui dirlo, ma l'ha sentito dire. Da chi? e perché lo si diceva? E' stato notato giustamente che del combattimento e del comportamento della città Dumas non ha visto niente. Scriverà maliziosamente Bandi che lo scrittore si era goduto dal suo "piccolo navicello lo spettacolo della battaglia per tesserne poeticamente la storia ai suoi lettori".

Dumas, in realtà, era sbarcato a cose fatte, e i "colpi di fucile" che aveva sentito potevano essere soltanto,non essendosi combattuto nelle strade della città, quelli che si scambiarono i borbonici ormai asserragliati nel castello e i garibaldini che si erano insediati ai Cappuccini e alla torretta a nord del castello, il cosiddetto mulino a vento. D'altronde, che quando sbarcò tutto fosse finito, lo dicono le testimonianze concordi del volontario che lo guidò a casa di Stefano Zirilli (il quale stava già offrendo una cena agli ufficiali garibaldini), il volontario che lo ricevette e, vedendolo così scuro di carnagione, lo scambio per un carrettiere siciliano, il maggiore Cenni e lo stesso Zirilli che lo accompagnato al "bivacco di Garibaldi" (che non aveva accettato l'invito, preferendo restare vigile, a S. Maria Maggiore, davanti al mare e alla costa da cui potevano arrivare rinforzi a Bosco). Dallo sbarco fino alla chiesa, lungo il suo percorso per la Marina, Dumas non dovette veder molto.

O forse qualcosa non volle vedere, tanto che parla di "morti e feriti", ma non accenna neppure al saccheggio di botteghe e case lungo la banchina che era già cominciato, e che fa dire proprio al suo accompagnatore Zirilli che "Milazzo aveva l'aspetto di una città presa d'assalto".(Un momento amaro che solo di recente Girolamo Fuduli ha tratto dall'ombra della rimozione). Tuttavia è evidente che non basta mostrare la scarsa attendibilità di quell'inciso e di quell'epiteto "infamante" ed attribuire soltanto ad esso quanto i giornali scrissero in quei giorni e i libri nei decenni successivi, con riferimenti a fatti, che è doveroso esaminare, anzi interpretare.

Cominciamo da alcune affermazioni, per così dire, di prima mano, fatte cioè da partecipanti alla battaglia, subito dopo di essa, e riferite dallo storico barcellonese Filippo Rossitto che era stato anch'egli presente. Scrivendo molti anni dopo dei "Fatti posteriori alla battaglia di Milazzo", pur ammettendo che "non è conforme al vero" quel che scrissero alcuni giornali, che cioè i milazzesi abbiano gettato acqua bollente e tegole" sui garibaldini. e pur sottolineando che lo stesso Garibaldi smentì quelle false dicerie", Rossitto aggiunge pero che gli '"tocca ricordare che molti garibaldini mosser o lagnanze per i1 contegno piuttosto ostile di alcuni milazzesi verso di loro". Cita tre casi: il ten. Gaetano Giussani riferiva di un suo commilitone ucciso "da un borghese" durante la loro entrata a Milazzo; il cap. Ignazio Cavaldini, furibondo per una ferita procuratagli da una fucilata partita da un balcone, da Barcellona volle tornare su un asino a Milazzo -contro il parere del medico- e "inciprignatasi la ferita, morì"; "un certo Aines" sosteneva di essere stato colpito alla schiena da un mattone tiratogli da una donna. (A proposito di quest'ultimo caso, Santi Recupero, nel volumetto su Milazzo dal l848 al 60, pubblicato nel 1927, in cui ardentemente difendeva la città da ogni accusa, preciso che c'era stato, sì, fra i garibaldini un Ainis che poi si stabilì a Milazzo, ma non fù ferito da un mattone e professò sempre attaccamento a questa città scelta come sua "patria di elezione".).

Come spiegare queste voci, provenienti da persone che avevano vissuto quella giornata e non avevano ragioni per inventarseli, e che sono riferite in un contesto che mette l'autore al riparo da accuse di "rivalità campanilistiche"?
Bisogna intanto sottolineare, intanto, che esse trovano riscontri in notizie pubblicate nella settimana successiva in vari giornali italiani: per esempio, nel Corriere Cremonese del 28 luglio scriveva che "alcuni abitanti di Milazzo, partigiani del Borbone, e birri travestiti gettarono olio e acqua bollente" sui volontari entrati in città, tanto che Garibaldi ne fece fucilare 39. Due giorni dopo l'Unità d'Italia pubblicava la testimonianza di uno che aveva avuto il fratello ucciso a tradimento da "villani milazzesi travestiti da garibaldini".

Inutilmente da Palermo Il Giornale Officiale di Sicilia definiva queste voci "bugie che tentano di infamare una città", smentiva che si fossero mai gettati olio e acqua bollente, sosteneva che le fucilate erano partite da soldati regi che avevano occupato case private ed esprimeva la certezza che "il tempo disperderà le nubi" delle accuse infondate. Le voci continuavano a rimbalzare da un organo all'altro e, unite al giudizio di Dumas, facevano scrivere all'autorevole Times del 4 agosto che "la popolazione di Milazzo è una delle peggiori per spirito nazionale e patriottico", e facevano esprimere a Massimo D'Azeglio, che aveva creduto  alle notizie dei giornali, critiche perché, "in una guerra per forma politica e fra italiani", si erano fucilati 39 milazzesi accusati di essere filoborbonici.


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