a cura del prof.Bartolo Cannistrà
(Milazzo Nostra, n. 22, febbraio 2009)
Benché accusata, soprattutto da qualche centro vicino, di essere una “città borbonica”, in realtà Milazzo diede al Risorgimento siciliano, sia nel ‘48 che nel ‘60, un contributo rilevante per qualità, come forse nessun altro centro delle sue dimensioni. Durante la rivoluzione del 1848 le quattro personalità di maggiore spicco del movimento liberale milazzese (Piraino, Zirilli, Bonaccorsi e Piaggia) rivestirono cariche di alta responsabilità nel governo dell’Isola, e nel ’60 li troviamo ancora, in ruoli diversi, impegnati a dare un supporto prezioso all’iniziativa garibaldina.
Domenico Piraino (che aveva alle spalle anni di carcere e di vessazioni poliziesche, e che nel 1847 aveva redatto con Settembrini e Poerio la celebre “Protesta del Popolo delle Due Sicilie”), dopo essere stato eletto dai suoi concittadini, nel marzo del ’48, deputato al Parlamento di Sicilia, fu nominato da Ruggero Settimo Commissario del Governo per la Provincia di Messina, diresse la sfortunata difesa della città, e poi prese la via dell’esilio (Malta, Torino, Parigi, Londra) sempre propugnando la causa siciliana, finché, nel settembre del ’60, fu nominato da Garibaldi Segretario di Stato agli Esteri nel governo della Sicilia liberata. Eletto deputato al primo Parlamento d’Italia nel ’61, fu nominato, qualche mese dopo senatore del Regno.
Stefano Zirilli, che nel ’42 aveva abbandonato, a trent’anni, una brillante carriera
di ufficiale del Genio nell’esercito borbonico, nel ’48 presiedette il Comitato
rivoluzionario milazzese, ottenne la capitolazione del castello, e quindi, chiamato
a Palermo, diresse il Ministero della Guerra (rifiutando la carica di ministro che
gli era stata offerta), la Scuola militare
per allievi ufficiali e la “Rivista di scienze militari”. Arrestato dopo la vittoriosa
reazione borbonica, imprigionato e quindi sottoposto a domicilio coatto, quasi
un decennio dopo si vide offrire dal governo borbonico -che cercava di coinvolgere
anche tecnici di idee liberali- l’alto incarico di Direttore generale dei Lavori
pubblici del Regno, ma rifiutò. Nel ’60 rinunciò alla carica di direttore del Ministero
della Guerra offertagli da Garibaldi, per contribuire, collaborando con Giacomo
Medici, alla preparazione della vittoria del 20 Luglio. Dopo l’Unità fu eletto più
volte presidente della Provincia.
Francesco Carlo Bonaccorsi, dopo essere stato dal governo borbonico incarcerato e costretto all’esilio (in Francia, Inghilterra, Algeria, Tunisia, Malta), nel ’48, andato a Palermo come rappresentante della sua città, fu nominato dapprima direttore del “Giornale Officiale di Sicilia” e, poi, direttore del Ministero della Pubblica Istruzione. Fu incaricato di scrivere, insieme a La Lumia, la “Memoria storica sui diritti politici della Sicilia”. Repressa la rivoluzione riparò a Milazzo. Nel 1860 lo troviamo più defilato, ma, come vice-console del Regno di Sardegna, può assistere i garibaldini feriti o catturati, e il giorno della battaglia è fra quanti accolgono i garibaldini, ospita Medici nel suo palazzo, e a ottobre redige l’indirizzo di omaggio a Vittorio Emanuele che una delegazione milazzese –di cui egli fa parte- porta al nuovo re d’Italia.
Giuseppe Piaggia (cfr anche Giuseppe Piaggia e Milazzo) nel ’48 si arruola nella Giovane Guardia, a Palermo, scrive sui giornali rivoluzionari, e viene chiamato a succedere a Bonaccorsi nella carica di direttore del “Giornale Officiale di Sicilia”. Dopo che la rivoluzione è stata soffocata, per sfuggire alla repressione borbonica, si rifugia a Milazzo, deluso dall’opportunismo dei voltagabbana, ma anche dai contrasti fra i patrioti. Non si occuperà più di politica attiva ma solo di studi storici; tuttavia le sue pagine saranno vibranti di sentimenti antiborbonici e liberali. Nel ’60, subito dopo la battaglia di Milazzo, accorre per raccogliere notizie di prima mano sul suo svolgimento e scrive una sorta di instant book sulla giornata del 20 Luglio, descritta quasi in diretta: la prima ricostruzione documentata della battaglia. Nel ’63 viene nominato dal governo Ispettore (carica onorifica non retribuita) delle Scuole superiori della Sicilia occidentale.
Questo il contributo che i quattro patrioti milazzesi di maggiore spicco (non gli unici, però) diedero al Risorgimento. Ma, a parte il comune spirito anti-borbonico, qual era la posizione politica di ciascuno di loro? E queste posizioni rimasero immutate nel periodo che va dal ’48 al ’60? O, se mutarono, quali ragioni li spinsero a passare dalla rivendicazione dell’indipendenza della Sicilia, che fu il motivo ispiratore della rivoluzione del ’48, all’accettazione del progetto unitario e sabaudo, di cui fu esplicitamente portatrice, da Salemi in poi, l’Impresa garibaldina, condotta in nome del motto “Italia e Vittorio Emanuele”?
Se Milazzo può essere detta "città garibaldina" per la battaglia decisiva
che qui Garibaldi vinse, ma anche per la partecipazione dei patrioti milazzesi alla
preparazione e all'esito di essa, potrebbe dirsi che, in qualche modo, essa fu,
seppur per un certo periodo, magari in parte, una "città mazziniana"?
E’ vero che dal 1853 in poi aveva abbandonato la posizione rigidamente repubblicana, avvicinandosi a quella di Garibaldi e partecipando poi fattivamente all’organizzazione della Spedizione dei Mille, ma, pur non mettendo in discussione l’opzione monarchica garibaldina, egli non tradì la sua matrice repubblicana e –come d’altronde Mazzini, cui restò vicino fino alla morte- cercò di opporsi all’annessione incondizionata del Sud al regno sabaudo e di premere perché si proseguisse verso la liberazione di Roma dal dominio pontificio. Certo, il fatto che la sua elezione fosse raccomandata ai milazzesi anche da un moderato come Domenico Piraino, mostra che essa fu dovuta al contributo che egli aveva dato alla caduta del regime borbonico, e non alle sue posizioni democratiche e alle sue frequentazioni mazziniane. Questo non basterà a far definire Milazzo “città mazziniana”, ma può essere sufficiente per concludere che non c’erano, almeno nel decennio dell’unificazione, così forti pregiudiziali da impedire l’elezione di un uomo che con Mazzini aveva collaborato e condiviso -e in parte condivideva ancora- idee e progetti repubblicani.