PROCESSO COSENTINO

PROCESSO COSENTINO

Istruito dal 4 luglio 1512 al 19 gennaio 1513, in quattro sedi: a Cosenza (testi dal 1° al 56), a S. Lucido (dal 56 al 62), a Paterno (dal 63 al 99), e a Corigliano (dal 100 al 102).

Le deposizioni dei singoli testi rispondevano al seguente questionario:

1. Che la terra di Paola si trova nella provincia di Calabria, la quale provincia, e, di conseguenza Paola, da cento o da ducento e forse anche da trecento anni, tanto da perdersi a memoria d’uomo, è stata, come tuttora lo è, cristiana ed è vissuta e vive secondo la fede e la religione di N.S.G. Cristo e pertanto tale è ritenuta.  

2. Così pure che da Paola ebbe origine Giacomo Martolilla, padre del detto fra Francesco, che fu cristiano e battezzato e visse, per tutto il tempo di sua vita, secondo la fede e la religione cri­stiana e come tale fu in effetti ritenuto.

3. Che in detta terra di Paola nacque Donna Vienna, madre del detto fra Francesco, la quale, ugualmente, fu cristiana e per tutto il tempo della sua vita visse secondo la fede cristiana e tale è stata sempre considerata.

4. Ugualmente che tra il detto Giacomo, padre, e la detta Vienna, madre, fu contratto legittimo matrimonio, secondo il rito e l’uso della Santa Romana Chiesa, e durante tutto il tempo che vissero, lo trascorsero cristianamente, in pace e di accordo e fu­rono sempre ritenuti come legittimi coniugi e così reputati.  

5. Che dai suddetti coniugi, e sempre secondo questo ma­trimonio, nacque il detto fra Francesco, figlio legittimo (e natu­rale dei predetti), il quale venne educato dai suoi genitori e rite­nuto, quindi, generalmente quale figlio legittimo e naturale.

6. Che i suddetti Giacomo e Vienna, padre e madre, nato e messo al mondo detto fra Francesco, si premurarono di far bat­tezzare il loro legittimo figliolo, come sopra si è detto, perché buoni cristiani, nella stessa terra di Paola, imponendogli il nome di Francesco e lo fecero anche cresimare; così, battezzato e cresi­mato, fu da tutti ritenuto.

7. Ugualmente, che il detto fra Francesco visse tutta la sua infanzia onestamente e religiosamente come un buon cristiano nella sua Paola. Edificò molti monasteri.

8. Che durante la sua vita visse in tale maniera e questa fu la sua vita.

9. Che egli, vivendo, operò questo e quell’altro miracolo.  

10. Che tale fu, era ed è la fama, durante tutto il tempo che egli visse nella sua provincia, ed anche dopo la sua partenza.

 

TESTE PRIMO

4 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Il Magnifico Signor Galeazzo di Tarsia, Barone e Signore di Belmonte, teste esaminato con giuramento e posta la mano sopra le Sacre Scritture.

Quanto al primo, ha detto di sapere che Paola è stata sem­pre cristiana e di religione cattolica e sotto l’obbedienza della Santa Romana Chiesa; Paola si trova nella provincia di Calabria; la quale Calabria è stata sempre cristiana da tanti anni che a me­moria d’uomo non si ricorda il contrario. Quanto al terzo, omesso il secondo, ha affermato di non ricordare il nome della madre, ma la conobbe e sa che era rite­nuta una donna per bene, di buona fama e cristiana buona.

Sul quinto, omesso il quarto, ha ammesso di non saper altro se non che detto fra Francesco era nato legittimamente e perfet­tamente senza contrarietà alcuna.

Sul sesto ha detto di sapere che si chiamava o sempre fu chiamato Francesco.

Sul settimo ha affermato che trascorse gli anni della sua ado­lescenza a Paola e sempre menò una vita onestissima e perfetta, piena di odore di buona fama.

Sull’ottavo ha detto che a Paola, a Paterno e a Spezzano dove questo stesso fra Francesco edificò dei conventi importanti, si recavano quotidianamente numerosissime persone, attratte dalla fama e dai miracoli che operava fra Francesco. Lo stesso teste non vide mai alcuno tornarsene scandalizzato della vita di lui, anzi se ne tornavano soddisfatti lodandolo per le sue virtù e preghiere di detto fra Francesco, e per aver ricevuto molte grazie. Il detto te­stimone ammette questo perché egli fu a visitarlo con suo padre e sua madre una ventina di volte dato che il paese era vicino e anche la baronia. Sul nono ha detto che avendo il defunto suo padre, Don Giacomo, una piaga a una gamba, che ogni giorno sempre più andava peggiorando, dalla quale emanava cattivo odore e ne usciva pus inarrestabile, per guarire il suddetto Don Giacomo avvicinò tutti i chirurghi che erano in Cosenza tra i più famosi, tenendolo in cura per tre o quattro mesi; malgrado ciò, la gamba andava sempre di male in peggio, continuando ad emanare cattivo odore e materia. Trovandosi in quel tempo il Signor Vincello, chirurgo assai famoso di Maida, provincia della Calabria, nella diocesi di Nicastro, dove dimorava la Marchesa di Gerace, nuora di Re Fer­dinando I, di felice memoria; la suddetta Marchesa fece venire il detto Signor Vincello e curare per diciassette o anche venti giorni la detta piaga alla gamba, non riscontrandone miglioramento al­cuno; perciò il detto Signor Giacomo se ne tornò afflitto e scon­solato; solamente il Signor Vincello seppe ordinargli una semplice lavanda di vino per attutire il cattivo odore, che dava fastidio allo stesso paziente, ma senza alcuna speranza di guarigione.

Pertanto il detto Don Giacomo, tornato in Belmonte al suo castello, decise di portarsi a Paola con sforzo perché erano neces­sari un giorno e mezzo di cammino; Belmonte è distante da Paola quattordici miglia. Giunto. alla porta del convento, ove dimorava fra Francesco, senza neppure entrare per la chiesa o per il convento dato che il dolore che avvertiva alla gamba glielo impediva, si fece togliere la fasciatura che gliel’avvolgeva; in questo mentre, sopraggiunse fra Francesco e guardandolo con in viso la sorpresa e compassione disse al detto Don Giacomo: «Questo è un gran male, per cui vi occorre avere una grande fede in Gesù Cristo Nostro Signore»; quindi, rivolgendosi ad un suo confratello disse: «Per carità, va’ e fammi alcune foglie dell’erba chiamata “unghia cavalla”, che è un’erba grande, e prendimi un po’ di polvere di quella che si trova nella mia cella». Frattanto che il fra­tello si era allontanato, fra Francesco si portò dietro la porta della chiesa, di fronte al Crocifisso, raccogliendosi in preghiera. Tor­nato il fratello con la polvere e l’erba, fra Francesco si avvicinò al suddetto Don Giacomo e disse: «Abbi grande fede nel Si­gnore nostro Gesù Cristo e spero che Egli ci concederà la grazia»; fatto, poi, il segno della croce sopra la ferita, vi mise un po’ di polvere, applicandovi tre foglie, una sopra l’altra, aggiungendo: «Andate pure, e portate con voi queste foglie e un po’ di polvere, che è in questa cartina e applicatevele per due o tre volte sulla ferita, e abbiate fede nel Signore, il quale vi farà la grazia. Sentite queste parole, Don Giacomo pianse di allegrezza; fasciata nuovamente la gamba e bevuta un po’ di acqua, montò a cavallo e fece ritorno a S. Lucido, mettendosi subito a letto, per tornarsene di buon mattino a Cosenza; faceva molto caldo, giacché era d’estate. Due ore prima del far del giorno, salito nuovamente a cavallo e giunto sulla cima della montagna, disse a sua moglie e a quelli del seguito: «Io non sento nessun dolore, che avvertivo insopportabile, quando ero a cavallo». Allora disse: «Voglio ve­dere se posso mettere il piede a terra»; e camminando senza fa­stidio e dolore, si toccò pian piano la ferita, e non avvertendo il dolore di prima, si diede una botta più grande alla gamba, e ri­volgendosi alla defunta moglie Giovanna disse: «Io sono gua­rito». Così tornammo a Cosenza con grande gioia! Don Gia­como e la moglie e tutto il seguito erano certi che fosse guarito miracolosamente per le preghiere e le virtù di fra Francesco e per la fede e pietà che vi portava. Poi il dottor Paolo, celebre chirurgo che aveva curato tale male, ammirato e attonito della gua­rigione così rapida e insperata, sperimentò quell’erba «unghia ca­vallina» in vari morbi ma non vi riusciva e ammetteva e confes­sava che quello era un miracolo avvenuto per i meriti e le pre­ghiera di fra Francesco. Il che sa e conosce in quanto fu presente, vide e sentì sin da trentaquattro o trentacinque anni. Lo stesso testimone ha detto di sapere pure che un certo Giacomo Ronco di Belmonte, diocesi di Tropea, suo suddito, volle andare a Paterno, diocesi di Cosenza, ove dimorava il detto fra Francesco, il quale vi si trovava per edificare un convento. Stando male un suo fratello, o figlio non ricorda bene — desideroso di fare un presente a fra Francesco, si portò in un podere di un suo zio e colse un paniere di ciliege, primizie di stagione. A Pa­terno distante dodici miglia dal luogo in cui aveva colto le ci­liege, incontrò fra Francesco; si inginocchiò, pregandolo che gli venisse in aiuto, presentandogli il paniere delle ciliege. Fattosi il frate alquanto indietro, con volto sdegnato gli disse: «Va’, re­stituisci per carità — queste ciliege al padrone, perché sono rubate!». Quegli, atterrito e stupefatto, non seppe che rispon­dere. Non pertanto Francesco lo rimandò senza averlo esaudito, e gli diede alcuni rimedi. L’uomo se ne tornò con le ciliege. Questo fatto lo raccontò proprio il detto Giacomo Ronco che lo ha testimoniato. Questo il teste ha deposto in quanto conosce e sa sin da quando fra Francesco si trovava a Paterno.

Sul decimo ha detto che fra Francesco sempre, prima e poi in Calabria, a Napoli e altrove, ha goduto di una buona fama e operato miracoli progredendo sempre di bene in meglio, né sentì mai mormorare persona alcuna sul suo conto, ma tutti esaltavano ciò che egli andava operando per le cose straordinarie che faceva, così come detto sopra, sia a Paola, a Paterno, a Spezzano e a Napoli.

TESTE SECONDO

5 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Francesco de Marco, cosentino, domestico del defunto Don Giacomo di Tarsia, teste esaminato con giuramento. Riguardo al primo ha detto di sapere che Paola si trova nella provincia di Calabria e da cento o anche da due o trecento anni, e non ve me­moria d’uomo in contrario, è stata ed è sempre cristiana; ha mantenuto usi e costumi come sogliono vivere tutti gli altri cristiani sotto la obbedienza della S. Romana Chiesa. Ciò sa e conosce per­ché vide e sentì dire altrettanto in tutti i paesi della provincia sin dal tempo che egli ricorda. Riguardo al terzo, omesso il secondo, ha affermato di conoscere la madre di fra Francesco, la quale era una donna per bene, di vita esemplare e altrettanto come generale reputazione, però, non ricorda come si chiamasse. E ciò perché sa in quanto vide e conobbe in Paola, saranno una cinquantina d’anni. Riguardo al settimo, omessi gli altri, ha affermato di sapere che detto fra Francesco in ogni luogo, in cui egli stette, Paola, Paterno e Spezzano e altrove nella diocesi di Cosenza, ove di­morò, godè buona fama per la sua vita. In questi paesi egli edi­ficò conventi grandi e ammirevoli, in numero di diciannove. Dovunque egli si fermò, accorreva una grande moltitudine di gente da ogni parte, e tutti se ne tornavano alle proprie case, lodando e ringraziando Iddio per le grazie ricevute ad intercessione del frate. Ciò egli affermò perché vide e fu presente così come detto sopra, circa trentacinque anni. Riguardo all’ottavo, ha attestato che fra Francesco viveva san­tamente e in modo esemplare con la fama comune di operatore di miracoli. E ciò perché conosce e vide e sentì da tempo. Riguardo al nono, ha ammesso che, essendo egli a servizio del defunto Don Giacomo di Tarsia, vide detto Giacomo che aveva una gamba ammalata, dalla quale emanava cattivo odore e abbon­dante pus, che non gli consentiva di avvicinare alcuno. Avendo costui consultati molti celebri medici, chirurghi quanti famosi ve n’erano in tutta Cosenza, non potendo guarire in nessuna maniera, si fece condurre in Nicastro, presso la Marchesa di Gerace, nuora del defunto Re Ferdinando I di felice memoria. La Marchesa fece chiamare un chirurgo di nome Signor Vincello, allora famosissimo, il quale si diede a curare la gamba per circa diciassette giorni, ricorrendo ad ogni rimedio che la scienza suggeriva, senza, però, risultato positivo alcuno, né notò qualche miglioria. Disperato per ogni soccorso dei medici, pensò di rimettersi all’aiuto e alle preghiere di fra Francesco, il quale si trovava a Paola. Quivi giunto, mostrò la gamba a fra Francesco, il quale la guardò con stupore, dicendogli: «Signor Giacomo, questo è un brutto male; devi avere gran fede in Dio». Mandò allora un fraticello che gli portasse una fronda di una certa erba, chiamata «unghia cavalla» e un po’ di polvere che aveva nella sua cella. Tornato il frate e applicata con un segno di croce, invocando il nome di Gesù la fronda di quell’erba, gli raccomandò che avesse sicura fede in Dio, e lo licenziò. Essendo il giorno dopo sopra la montagna di S. Lucido, l’ammalato avvertì che la gamba non gli dava più fastidio; cominciò a toccarla pian piano; non provando nessun dolore, fece sfilarsi lo stivale e se la percosse, ed esclamò: «Io sono guarito!». Per accertarsi di questo, cominciò a muo­versi a piedi con grande gioia sua e del seguito. Prese quindi a ringraziare Iddio, riconoscendo di aver ricevuta la grazia per la intercessione di fra Francesco, aggiungendo che durante il tempo in cui il frate era andato a prender l’erba, fra Francesco si era accostato alla porta della chiesa, con la faccia rivolta al Crocifisso, restando così un po’ in preghiera. Questo conosce e sa perché vide, fu presente e udì in Paola, ormai trentacinque anni. Ugualmente ha ammesso che avendo lo stesso Don Giacomo un figliolo ammalato, il quale non parlava da cinque giorni, mandò il testimone stesso a Paola da fra Francesco, dicendogli: «Va’ a Paola da fra Francesco e digli che per il mio bene e di mio figlio ammalato, impetri grazia da Dio per la guarigione del figliolo; io ho tanta fede nelle sue preghiere, che se alcuno fosse morto pure da tre giorni, risusciterebbe». Il testimone allora andò a Paola, riferendo quanto il suo signore gli aveva detto; la risposta fu che il buon Dio lo facesse degno d’impetrare una tal grazia; all’inviato, poi, raccomandava di rifocillarsi, giacché erano venti­quattro ore che non toccava cibo. Fra Francesco si appartò e per una buon’ora scomparve; il testimone capì che il frate si era allon­tanato per pregare. Tornato, assicurò il testimone che Dio aveva fatto la grazia: «Vai pure perché il ragazzo è guarito». Queste parole furono pronunziate quando era circa un’ora di notte. Il frate aggiunse allora: «Raccomanda a don Giacomo di essere un buon cristiano». Arrivato il testimone a Cosenza, ebbe piena cer­tezza che era stata quella l’ora esatta, allorché fra Francesco lo aveva assicurato di aver impetrata la grazia richiesta. Aggiunse che fra Francesco gli aveva dato pure due radici di erba e due biscotti da offrire all’ammalato. Ciò perché fu presente, vide e udì. Paola, provincia di Cosenza; da circa trentasette anni.. Inoltre ha attestato pure che v’è in Cosenza un tal Maurello di Cardilla, lebbroso da due anni; lo stesso testimone con altri pa­renti lo portarono a Paola; oltre che essere lebbroso, era altresì paralizzato di mano e di piedi e completamente nero nella faccia ed aveva perduto anche la parola. Giunti in Paola dinanzi a fra Francesco, questi lo guardò con stupore e gli disse che avesse fede in Dio, il quale gli avrebbe fatta la grazia e nel corpo e nell’anima. Fra Francesco allora si allontanò per un poco. Ritornò; prese per la mano il disgraziato e lo guarì subito e nelle mani e nei piedi con grande soddisfazione sua e dei suoi parenti; gli tornò pure completamente la favella. Tutto ciò per esser stato presente e averlo sentito a Paola e a Cosenza da circa quarantatre anni.  

TESTE TERZO

Stesso giorno 5 luglio 1512, 15°  dall’indizione  

Il nobile Giovanni Bombino da Cosenza, teste esaminato con giuramento. Sul primo ha affermato che Paola si trova nella provincia di Calabria, e che la Calabria e Paola lo è stata e lo è da due o trecento anni e non v’è memoria d’uomo che possa affer­mare il contrario; come sempre cristiana e ha osservato sempre la fede cattolica sotto l’obbedienza della Chiesa Romana. Il che co­nosce e tutto è vero come da tempo consta ed è risaputo. Sul quinto, omessi gli altri, ha affermato che sa per fama che fra Francesco è figlio legittimo come da tutti ritenuto e re­putato. In forza di quanto egli sa e ha affermato come sopra.

Sul sesto ha detto di sapere per fama che fra Francesco fu battezzato e cresimato come tutti i cattolici, di buona fama e vita e da tutti ritenuto e stimato tale.

Sul settimo ha detto che conosce e sa che fra Francesco da molto tempo in cui lo conosce, visse sempre secondo la religione cattolica e onestamente, eresse molti conventi grandi e ammire­voli a Paterno, Spezzano, a Paola e altrove e sempre perseverando di bene in meglio e operando anche molti  miracoli. E ciò sa e conosce come sopra.

Sull’ottavo il testimone ha detto di sapere che dimorando fra Francesco, in Paterno e a Paola, vi accorrevano molti ammalati, attratti dalla fama dei miracoli che faceva e tutti se ne tornavano contenti e grati per le virtù e le preghiere avute da fra Francesco. Sul nono lo stesso testimone ha detto che quando egli era ancora piccolo un mulo gli tirò un calcio in testa. Non si trovava nessun medico che lo soccorresse e quanti di essi furono inte­ressati al caso affermavano che era inutile intervenire, conside­randolo già morto. Il malcapitato ragazzo allora fu portato da fra Francesco, il quale, inginocchiatosi, impetrò la grazia dal Signore. Levatosi da terra, fece scrivere una lettera al medico Signor Paolo della Cava, il quale godeva ottima fama in tutta la Calabria, acché volesse compiacersi di prendere in cura il disgraziato e curarlo, perché il Signore gli avrebbe fatta la grazia. Il Signor Paolo co­minciò a medicarlo, ottenendone la piena e perfetta guarigione. Questo medico, però, parecchie volte si era anch’egli rifiutato di prendere in cura il poveretto, anch’egli sicuro e convinto che sa­rebbe morto, come già si erano pronunziati precedentemente gli altri suoi colleghi, affermando la ferita aver toccato la materia stessa cerebrale, che egli aveva palpato con le proprie sue mani e niente ci voleva perché il cervello se ne andasse in sepsi, perciò impossibile la guarigione. Ricevuta intanto la lettera di fra Fran­cesco, prese a curare la ferita, la quale si rimarginò e guarì. Dopo di che ripeteva il Signor Paolo al testimone: «Non sono state le mie medicine che ti hanno ridato la vita, ma prima il Signore e poi l’intercessione di fra Francesco. In forza della conoscenza per essere stata la diretta mia persona a sperimentare tanta grazia». Paterno, diocesi di Cosenza. Questo fatto rimonta a trentatre anni or sono. Lo stesso teste ha aggiunto che due anni fa un cane gli morsicò una gamba, procurandogli cinque ferite, sì che l’arto gli si era tutto infettato in maniera grave. Il padre dello stesso testimone, vedendo il male aggravarsi sempre più, fece portare il figlio da un suo garzone dal frate. Fra Francesco, vedendo la ferita, prese del midollo di sambuco e ve lo pose sopra, aspergendola con un po’ d’acqua santa in forma di croce, dicendo: «Puoi andare, perché non ti succederà niente». Così il giorno seguente si trovò sano, come se nulla gli fosse mai capitato. In forza della verità, perché quanto detto, gli avvenne in propria persona. Dal luogo come sopra, or sono trentadue anni. Sul decimo ha affermato che era di buonissima fama e vita, e che tutti correvano da lui per la fama dei suoi miracoli. In forza della conoscenza, presente, vide e udì. Luogo e data come sopra.  

TESTE QUARTO

Stesso giorno 5 luglio 1512, 15°  dall’indizione

Il nobile Francesco Florio, di Cosenza; teste interrogato con giuramento, dopo aver posto le mani sopra le Sacre Scritture.

Riguardo al primo, ha affermato di sapere e ricordare da circa cinquant’anni a questa parte che Paola appartiene alla pro­vincia di Calabria e che in tutto questo tempo è stata cristianis­sima ed è vissuta sempre secondo i dettami della religione di Cristo, e così il testimone stesso l’ha ritenuta e la ritiene tuttora, e come lui anche questa è voce comune. Riguardo al secondo, ha affermato che sa da fama che il pa­dre e la madre di fra Francesco nacquero in Paola; sono cristiani, nati da famiglia onesta, come da tutti è riconosciuto.

Riguardo al quarto e quinto, omesso il terzo, il teste conosce per fama che fra Francesco nacque nella Terra di Paola da padre e madre legittimi coniugi, che contrassero legittimo matrimonio secondo il rito della Santa Romana Chiesa.

Riguardo al quinto, il teste ha affermato di sapere per fama che il defunto fra Francesco nacque a Paola, e messo al mondo dai suoi legittimi genitori, dei quali, però, non ricorda i nomi. Ciò per quello che egli sa. Luogo e tempo come sopra.

Riguardo al sesto, ha detto di conoscere come fra Francesco fu battezzato e cresimato secondo il rito e la religione cattolica.

Riguardo al settimo, ha affermato di non saper niente.

Riguardo all’ottavo, ha detto che, data la grande fama che di fra Francesco c’era in giro, nello spazio di quasi sette o otto  mesi continui, si recò, spesso, a Paterno nella diocesi di Cosenza a visitarlo, dove allora faceva costruire il convento. Una di queste volte, poiché era il mese di dicembre, fioccava e faceva freddo in­tensissimo. I monti circostanti erano ricoperti da due palmi di neve; trovò fra Francesco in chiesa, scalzo e vestito assai poveramente, con il solo abito lacero addosso, e stava tutto assorto nella con­templazione. Pur standogli vicino e averlo salutato con le parole «Ave, Maria», non lo scorse, poiché era in estasi. Gli capitò di ve­dere la cella in cui dormiva: non v’era altro che una tavola e una tegola dove poggiava il capo. I frati del suo stesso ordine asseri­vano pure averlo visto mai mangiare se non solo il giorno di Pa­squa, alcune fave, assieme ai frati, così nelle altre feste solenni. Si addentrava nei boschi scalzo sopra le spine e in altri luoghi im­pervi. Batteva la mazza da mane a sera, e odorava; aveva le mani più morbide e delicate del miglior signore di città. Vestiva sempre lo stesso abito con le toppe e sdrucito; ma la sua persona odo­rava come erba fresca; i capelli poi apparivano come fili d’oro; i piedi pur incedendo nudi erano, come le mani, delicati e mor­bidi, come se avesse sempre calzato le scarpe. Dove egli si recava, dove vi fosse acqua, roccia e sabbia edificava conventi. Ciò per­ché conosce, ha veduto e saputo in Paterno e a Spezzano Grande della diocesi di Cosenza. Data come sopra.Riguardo al nono, ha detto che nel tempo in cui fra Fran­cesco costruiva il convento di Paterno, ventinove o circa trent’anni or sono, il magnifico Dottor Luigi de Paladinis di Lecce, Regio Uditore della Provincia di Calabria, un anno si ammalò durante il mese di luglio o di agosto nella città di Cosenza, costretto a letto per trentatre giorni e tre medici lo curavano, i quali si consulta­rono per diagnosticare il male di cui fosse afflitto il degente. Il mercoledì seguente decisero di non somministrare più farmaco alcuno, lasciando che il male facesse il suo corso. Il giovedì poi, la Signora Caterinella, moglie del Signor Luigi, chiamò un tal Gio­vannino, loro servitore, e lo mandò da fra Francesco a Paterno, dicendogli che raccomandasse nelle sue preghiere al Signore l’am­malato, perché il Signor Luigi potesse star bene. Tornato quegli in giornata stessa, la Signora gli chiese cosa avesse detto fra Fran­cesco; la risposta fu che preparassero due fette di pane abbrusto­lite, bagnate di aceto con su del pepe, cannella, garofano e zen­zero, il tutto pestato e bagnato; una delle due fette applicarla sopra lo stomaco, l’altra sopra la schiena. Ciò sentito, la moglie dell’infermo volle consultare i medici se opportuno applicare un empiastro del genere; uno di essi rispose: «Noi siamo tre medici qui, che studiamo come poter guarire e soccorrere gli infermi, men­tre questo ignorante pretende consigliare tali farmaci!». E ci si attenne a questo consiglio, desistendo dall’applicare quanto dal frate consigliato. Il venerdì poi, la Signora Caterinella chiamò que­gli che depone, giacché costui era buon amico di fra Francesco, pregandolo che andasse da lui e facesse una preghiera per l’infermo suo marito. Il testimone si recò quindi a Paterno, e dinanzi al con­vento stava fra Francesco da solo; appena lo vide, un po’ turbato gli disse: «Tu vieni per il Dottor Luigi! Quelli non hanno vo­luto far niente di quanto da me consigliato; poiché egli non ha avuto fede, neppure può avere la grazia; torna indietro e dì loro che facciano come da me consigliato, e abbiano fede nel Signore, perché otterranno la grazia». Senza null’altro aggiungere, il testi­mone si rimise sui suoi passi, riferendo alla Signora Caterinella le parole di fra Francesco. Immediatamente furono apprestate le consigliate due fette di pane e l’altro ingrediente, così come aveva detto fra Francesco e applicate sul corpo dell’ammalato, che le tenne sino all’alba del sabato; in quest’ora il Dottor Luigi si sve­gliò; sedette sul letto e chiese finanche da mangiare, quindi fu guarito. Ancora lo stesso testimone, ha detto che dopo alcuni giorni di convalescenza, il Dottor Luigi volle portarsi a Paterno a visi­tare fra Francesco e rendergli le dovute grazie per la guarigione ricevuta. Un sabato fece chiamare il Notaio Nicola Bombino di Pa­terno, uomo dabbene, pregandolo di volergli preparare la colazione per il lunedì; questi tornò a Paterno e si tenne pronto come det­togli dall’amico per il lunedì mattina in attesa del Dottor Luigi; era circa il mezzogiorno. Si vide allora davanti fra Francesco, il quale gli disse: «Tu aspetti il Dottor Luigi, è vero? Puoi andare a mangiare, perché oggi non può venire, essendo impegnato nelle sue faccende». Notar Nicola se ne tornò a casa. L’indomani mat­tina, martedì, il Dottor Luigi si recò a Paterno con sua moglie la Signora Caterinella, il testimone e qualcuno dei suoi servi. Prima d’incontrare fra Francesco, la signora disse al testimone: «Fam­mi questo favore; quando con mio marito staremo parlando con fra Francesco, andrai dietro, senza farti accorgere, quindi gli ta­glierai due dita del suo abito per devozione». Stando al­lora i due a conversare con il frate, il testimone andò di dietro e volendo prendere le forbici per tagliare le pezze dell’abito, fra Francesco si girò e disse: «La devozione - furono le sue pa­role - non sta nelle pezze, bensì nelle buone opere!». Ciò sa, perché fu presente, vide e sentì.

Ha aggiunto ugualmente ancora lo stesso che un mese dopo la convalescenza del Dottor Luigi, si ammalò a questi un figliolo; fu chiamato e gli fu detto: «Francesco, tu che hai buone gambe, vai nuovamente a Paterno dal frate, e raccomandagli questo mio figliolo infermo alle sue preghiere. La risposta che il testimone si ebbe fu: «Direte a chi vi ha mandato che sia un buon cristiano, e badi ad amministrare coscienziosamente la giustizia; tu vieni per il figlio del Dottor Luigi, non è vero?». Dopo quattro o cinque giorni il ragazzo guarì. Senonché, dopo qualche tempo, tornò il ragazzo a star male; nuovamente fu mandato lo stesso messo a Pa­terno da fra Francesco, il quale, prima ancora che egli cominciasse a parlare: «Tu vieni per il figliolo del Dottor Luigi? — disse — Ebbene digli che per questa volta abbia pazienza; Iddio, nostro Si­gnore, lo vuole presso di sé, ma che abbia pure fiducia in Dio, perché avrebbe avuto altri figlioli». Quel figlio morì due o tre giorni dopo e il suddetto Signor Luigi, ebbe poi, altri figli. Infatti la moglie partì da Cosenza in stato interessante. Ancora lo stesso testimone ha aggiunto che egli stesso da otto mesi era assalito dalla febbre quartana e, precisamente, dal mese di settembre a tutto aprile; quando egli si recò a Paterno da fra Fran­cesco e lo pregò di raccomandarlo nelle preghiere sue a Dio per impetrargli la grazia della salute, fra Francesco allora disse: «Quan­do passerai il luogo chiamato “Caro”, prenderai dell’erba detta “filidriza”, che cresce sul tronco della quercia e la farai bollire con alcuni ceci. Allorché verrai assalito dal tremito della febbre, ne berrai qualche sorso, e mantieniti come un buon cristiano».. Il testimone si attenne a questo consiglio; la mattina successiva, av­vertendo i sintomi della quartana, bevve di quell’intruglio, e non avvertì più di quel male e fu completamente guarito. Inoltre lo stesso testimone ha detto che un giorno del mese di dicembre, essendo andato per una visita, il detto fra France­sco era in un bosco, distante qualche miglio dal convento che stava edificando in Paterno e faceva trasportare la legna per la for­nace della calce. Vi erano circa trecento persone. uomini e donne, a cui predicava, spiegando il Vangelo. Per ciò che il testimone poteva sentire e capire, sapeva che fra Francesco non era affatto un uomo di lettere; terminata l’allocuzione, accompagnò tutta quella gente al luogo stabilito per preparare il legname. Restarono allora soli, fra Francesco e il testimone, il quale gli rivolse questa domanda: «Poiché vedo che siete un uomo ispirato da Dio: “Che ne sarà di questa guerra che si combatte in Toscana?”». E fra Francesco: «Questa guerra si risolverà in nulla, perché presto ces­serà; quello, invece, che preoccupa maggiormente, è che i Turchi stanno per invadere il nostro Regno. Ho scritto a S. Maestà il Re, mettendolo sull’avviso di fare attenzione e badare piuttosto alla situazione interna, anziché impicciarsi d’altro, che non lo riguarda direttamente; è dal mese di luglio dell’anno precedente e s’impa­dronirono di Otranto; il Duca ha fatto ritorno dalla Toscana e la guerra è terminata». Tanto per conoscenza personale, perché presente, vide e sentì in quanto praticava con lui e per il senso di devozione che aveva verso il Frate. Dal baglivo di Paterno. Nel tempo come sopra.

TESTE QUINTO

8 luglio 1512, 15° dall’indizione Roberto de Burgis da Cosenza, teste esaminato con giura­mento con la mano sopra le Scritture.

Circa il primo, ha affermato che Paola si trova nella provincia di Calabria; la qual provincia essere stata sempre ed è tuttora buo­na cristiana, fedele e vissuta sempre secondo la fede cattolica e di conseguenza anche Paola. Ciò che conosce perché fu presente e sentì. Circa il secondo, disse di sapere che il padre e la madre di fra Francesco dimoravano a Paola e di essere stato anche ospite in casa loro. Quindi conosce, vide e sentì. Paola, da ben cinquanta anni. Circa il quarto, ha deposto che fu lo stesso fra Francesco a suggerire al testimone in parola: «Va’ ad ospitare in casa dei miei genitori». Non ricorda però il nome né dell’uno e né dell’altra; essi dicevano che fra Francesco era loro figliolo. I genitori erano re­putati e ritenuti per persone dabbene e ottimi cristiani. E questo perché conosce, fu presente, vide e sentì. Circa il settimo, ha detto di sapere che, prima per pratica, che aveva con fra Francesco e poi per fama e conversazione, che visse sempre una santa vita e onesta anche per il modo di parlare, che era un continuo crescendo nell’esortare al bene e al meglio. Sono cinquanta anni che lo conosce e afferma che dovunque il frate si recava, erigeva conventi e chiese. Ciò ha affermato in forza della conoscenza: fu presente, vide e sentì dire tanto in Paterno come anche in Spezzano. Al tempo come sopra.

Circa l’ottavo, lo stesso teste ha detto di sapere che in qua­lunque luogo fra Francesco si fermava, vi accorreva gente assai numerosa, chiedendo grazie, e tutti se ne tornavano contenti, esal­tando la vita e celebrando la fama di detto fra Francesco. Tro­vandosi, un giorno a Paterno, detto testimone, vide circa duecento uomini e donne, che, afflitti da diversi mali, furono guariti, facendoli, il detto frate Francesco, tornare a casa felici e contenti. Ciò perché sa; luogo e tempo come sopra. Circa il nono, lo stesso teste ha affermato che essendo egli buono scrittore di libri ecclesiastici, esercitato in questa attività di scrivere continuamente libri in tutta la sua vita, gli venne un male nella mano destra, restandone paralizzato e deforme, sì da restare inoperoso per ben due anni, quindi privo di ogni mezzo di sussistenza. Fino al giorno in cui egli venne a deporre era ancora visibile la deformità dell’arto. La buona moglie allora disse al teste: «Marito mio, andiamo da fra Francesco a pregarlo perché voglia impetrare la grazia della guarigione della mano». Il teste, pur credendo poco alle parole della moglie, si lasciò convincere di andare a Paterno, ove si trovava fra Francesco e lo trovarono nell’orto, sotto una grande quercia; la moglie allora: «Padre, non vedi come è storpiata la mano di mio marito? Te ne prego, con­sigliaci un qualche rimedio che lo guarisca». Il suddetto frate Francesco si girò appena al teste, dicendogli: «Mostrami la ma­no».. Fattala vedere e toccandola con le mani sue: «Peccato!» — disse — «ad avere così la mano, la quale tanto bene deve an­cora fare!». La moglie allora pregò il frate che avesse la bontà di suggerirle qualche lavanda. Dopo questo incontro, se ne tornarono a Cosenza la sera stessa. La notte seguente, senza far ricorso a lavanda alcuna o ad altro ritrovato qualunque, la mano si ri­trovò sana e guarita; con somma gioia, si levò in camicia da notte, come si trovava, e volle provare a scrivere; impugnava la penna perfettamente come prima e così per tutti i suoi anni residui, fino ad oggi, pur in età avanzata. La mattina seguente, dopo aver ot­tenuta la guarigione, tornò da fra Francesco a rendergli le dovute grazie per il segnalato beneficio ricevuto per sua intercessione e cominciò a ridere di gioia alla vista del suo benefattore, mostran­dogli la mano inaridita. E il frate: «Va’ e scopa adesso casa tua, cioè la coscienza, e sii un buon cristiano». Ciò il teste sa perché nella sua diretta persona. In Paterno. Tempo circa quarantaquattro anni. Circa il decimo, ha deposto che era e fu sempre di buona fama e vita, come sopra.

TESTE SESTO

17 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Il Reverendo Don Giovanni Antonachio, di Paola, diocesi di Cosenza; teste esaminato con giuramento, toccate anche le S. Scritture ha deposto:

Riguardo al primo, sa che al tempo che ricorda, circa novan­tacinque anni or sono, che la provincia di Calabria è stata cristiana ed è vissuta cristianamente secondo il costume della Chiesa Romana Cattolica, come pure Paola, sita nella stessa provincia di Calabria e afferma che sempre s’è detto da cento o duecento anni che, a memoria d’uomo, nessuno può dire il contrario come la provincia di Calabria e Paola sono state sempre cristiane e vissute sempre canonicamente e senza aver aderito mai ad alcuna eresia. Il che sa in quanto cittadino di detta terra. Circa il secondo, ha affermato di sapere che Giacomo Mar­tolilla fu padre dello stesso fra Francesco, nato in Paola, cristiano e battezzato, visse per tutto il tempo della sua vita con fama in­temerata secondo la fede e la religione cristiana. Ciò lo sa in forza della conoscenza che ha perché fu presente, vide e sentì. Paola. Così da quasi ottanta anni.

Circa il terzo, ha detto di non conoscere la data di nascita di Donna Vienna, madre di fra Francesco, perché nacque in un ca­stello chiamato Fuscaldo, nella diocesi di Cosenza, però sa che, in seguito venne ad abitare a Paola, avendo sposato Giacomo; fu una donna per bene; cristiana e andò in pellegrinaggio, con suo marito Giacomo e fra Francesco, ad Assisi, per venerare il Santo e a S. Maria degli Angeli. Per conoscenza, in quanto fu presente, vide e sentì. Nello stesso luogo e tempo come sopra.

Circa il quarto, ha detto di sapere che tra Giacomo e Donna Vienna fu contratto legittimo matrimonio , secondo il rito della S. Romana Chiesa come buoni e veri cristiani, e vissero per tutto il tempo della loro vita in pace e sempre d’accordo, e da tutti ri­tenuti e reputati coniugi legittimi. In forza della conoscenza che ne ha perché sa Paola; così da circa ottanta anni sin quando loro vissero. Circa il quinto: da Giacomo e Donna Vienna, marito e mo­glie legittimi, perdurando il loro legittimo matrimonio, nacque fra Francesco, loro naturale figliolo, nutrito e cresciuto nella casa pa­terna dai suddetti Giacomo e Vienna e così da tutti ritenuto e re­putato quale figlio naturale. Ciò in forza della conoscenza, perché sa, vide e sentì. Paola. Circa settantacinque anni.

Circa il sesto, Giacomo e Vienna, appena nato fra Francesco, quale loro legittimo e naturale figliolo, si premurarono farlo bat­tezzare in Paola, dandogli il nome di Francesco e così anche cresi­mare; quindi il bambino fu da tutti ritenuto e creduto battezzato e cresimato regolarmente. Il che sa in forza della conoscenza, perché fu presente, vide e sentì. Luogo e tempo come sopra.

Circa il settimo, ha detto di sapere che fra Francesco sin dalla sua prima fanciullezza sempre visse onestamente e santamente. Alla età di tredici anni i suoi genitori Io accompagnarono al convento di S. Marco Argentano, dove il giovinetto rimase per un anno intero; terminato il quale, con lo stesso abito che l’anno precedente aveva portato da casa sua, insieme ai genitori si fece condurre in pellegrinaggio a S. Francesco d’Assisi e a S. Maria degli Angeli. Al ri­torno, nelle vicinanze di Paola, fra Francesco, senza entrare nel­l’abitato, andò a stabilirsi in un romitorio. Richiesti i genitori dove fosse rimasto Francesco, risposero: «Ha voluto restare fuori del paese, perché intende vivere da eremita». Alla età di quattordici anni, iniziò a costruire un convento, distante da Paola circa un miglio, il qual convento, con attigua la chiesa, è confortevole e ca­piente, non facendo ricorso alcuno se non a coloro che si reca­vano per devozione da lui, portando così a termine con loro la costruzione. Dopo quattro o cinque anni, cominciò a ricevere i primi compagni e vestirli dello stesso abito, che portava egli stesso indosso, formandoli a vivere in onestà e santità e inculcando loro di osservare la vita quaresimale. Lo stesso testimone sa che, terminato il convento di Paola, ne costruì un altro in Paterno, più grande e più ammirevole ed un altro ancora a Spezzano, grossi centri della diocesi di Cosenza; in seguito, ancora uno in Corigliano, nella dio­cesi di Rossano. Tutto questo il teste lo asserisce perché conosce, vide, fu presente e sentì. Nel luogo come detto sopra e altrove di fra Francesco si diceva avere egli quindici anni; dopo poi passò in Francia. Circa l’ottavo, ha affermato che viveva santamente; cammi­nava scalzo; vestito assai dimessamente; dormiva sopra un tavo­laccio con sotto il capo una tegola per guanciale. Non fu mai visto mangiare se non nei soli giorni solenni insieme agli altri frati, consistendo il suo cibo in alcuni legumi e questi mal cotti. Il te­stimone vedeva che a Paola e a Paterno vi accorreva moltissima gente, per la devozione e i miracoli che egli, fra Francesco, ope­rava, e tutti da lui se ne tornavano contenti con la gratitudine nel cuore e internamente edificati. A causa della conoscenza per­ché fu testimone oculare. Luogo e tempo come detto sopra. Circa il nono, ha affermato che, nel tempo in cui, impegnato nella costruzione del convento di Paola, apprestò una fornace; essendo questa sovraccarica di legna, il fuoco minacciava di farla ca­dere; gli addetti ai lavori, vedendo che non potevano in alcun modo ripararla, chiamarono fra Francesco, dicendogli: «Padre, correte, che la fornace di calce minaccia di rovinare!». Arrivato sul luogo, li tranquillizzò, dicendo loro di andare pure a far colazione, infondendo coraggio e restando solo sul posto. Ritornati gli operai, videro Francesco che si puliva le mani, con la fornace completa­mente rimessa in sesto, come se non ci fosse mai stata alcuna crepa o lesione visibile. Tutti dovettero convenire a quella vista che si era trattato di un vero grande miracolo. Se ne ha conoscenza, aven­dolo il teste sentito ammettere dagli operai direttamente.

Il teste stesso ha aggiunto che la fornace suddetta non era proporzionata come grandezza per la fabbrica cui adibita e che se bastò fu per le preghiere di fra Francesco.

Ancora lo stesso ha detto che una mattina andò con il suo mastro per ascoltar Messa alla chiesa costruita ed edificata da fra Francesco e non v’era fuoco; domandò al frate dove potesse tro­varne; questi gli risposte: «Guarda bene, per carità, perché vi deve essere fuoco nei tizzoni che stanno nell’angolo di tale cap­pella». Ma non ne trovò e disse a fra Francesco: «Padre non vi è fuoco nei tizzoni». Ma egli sopraggiunse: «Per carità, c’è il fuoco». Così egli stesso, fra Francesco vi andò e prese quei tizzoni che lo stesso teste aveva visti; soffiatoci sopra, con il semplice alitare i carboni divennero fiammanti, potendo così accendersi la candela con cui celebrar Messa. E’ ancora lo stesso teste a dire che, trovandosi, una volta, Francesco a parlare con un sacerdote forestiero, venuto da lontano, lo assicurava che una certa erba aveva virtù terapeutiche; quel prete, sorpreso, soggiunse: «Come fate a conoscere che questa erba può guarire?». La risposta di fra Francesco: «Non sapete voi che a coloro che servono Dio perfettamente e osservano i suoi comandamenti, le erbe, spontaneamente, per loro natura, rivelano le loro virtù?». Così parlando, fra Francesco accompagnò quel prete in cucina; prese un tizzone ardente e stringendolo fortemente nelle mani, rivolgendosi a lui, esclamò: «Questo fuoco perché è stato creato da Dio se non per obbedire all’uomo?». Dopo averlo tenuto in mano per qualche tempo, lo depose là dove l’aveva preso. Il prete, visto un tal prodigio, chiese di vestire l’abito della Re­ligione di fra Francesco, che però non lo consentì, ma lo consigliò invece di andare a Cosenza dai Francescani e vestire le sacre lane dell’Assisiate e professare per un anno, come devozione, e poi tor­nare da lui. Ciò il teste conosce per esserci stato presente. Paola, da circa sessantatre anni. Lo stesso testimone ancora ha deposto di sapere che un giorno, stando con fra Francesco dove aveva iniziato a costruire il convento e indicando il luogo in cui si apprestava a costruire una altra fornace per la calce, gli fu presentato un muto, il quale non aveva mai parlato. Fra Francesco lo condusse nella chiesa dicendogli: «Pronunzia il nome di Gesù per tre volte»; il muto obbedì e ripeté chiaramente «Gesù», e se ne tornò sano. La mattina seguente tornarono al lavoro con Mastro Antonio de Donato di S. Lucido per approntare la fornace della calce e trovarono il terreno a tal fine tracciato da fra Francesco, sprofondato, da non esserci bisogno di operare alcuno scavo; l’accesero, quindi, e cominciarono a fare la calce occorrente per il lavoro. Attendendo alla fornace, fra Francesco si rivolse ad un fraticello, dicendogli: «Va’, metti un pugno di fave a cuocere, perché Mastro Antonio possa far colazione». Il fraticello vi andò, po­nendo la pignatta sopra un mucchio di cenere spenta, dimenti­cando mettervi sotto del fuoco; arrivata l’ora della colazione, fra Francesco allora condusse Mastro Antonio in cucina, col teste, e disse: «Be’, prepara il piatto e scodella le fave perché si mangi». Mastro Antonio e lo stesso testimone si misero a ridere, guardando la pignatta senza fuoco; fra Francesco si avvicinò; tolse il coperchio dalla pignatta e i due operai videro che quanto stava dentro era bollente e fumante; servita la minestra e dopo aver mangiato, i due vollero darsi conto di quanto visto e mangiato, e costatarono che la cenere fredda era prima ed ancor lo stesso fredda dopo, con il focolare, evidentemente, del tutto spento. Questo perché testimone oculare. Paola, al tempo come sopra. Ha aggiunto ancora come un tal Giovanni Colabrogno, volendo portare su una caldaia con della pece bollente, dalla trave dove si trovava, gli schizzò sul viso, scottandogli non solo il viso, ma ancora il petto; quanti lo guardavano, affermavano che il di­sgraziato sarebbe rimasto sfigurato. Lo accompagnarono allora al convento, ove trovavasi fra Francesco, il quale teneva preparati alcuni succhi d’erba; il luogo dell’incidente era lontano un miglio circa. A tal proposito chi depone ha ammesso che non era possi­bile che fra Francesco, data la lontananza, avesse potuto avere notizia dell’accaduto così presto, ma solo per una divina grazia. Posti quei succhi sopra le scottature, lo trattenne con sé otto o nove giorni, rimandandolo completamente guarito, come se niente fosse successo. Paola. Fatto avvenuto circa quarantacinque anni or sono. Lo stesso testimone ha detto che fra Francesco visse nella più assoluta integrità fisica, in quanto chi depone conosce che il frate sin da piccolo entrò in convento e conservò sempre una vita casta e intemerata.  

TESTE SETTIMO

Stesso giorno 17 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Giovanni De Simone di Paola, interrogato con giuramento in articulo mortis, circa l’ottavo, omessi gli altri per la sua malattia, ha detto che fra Francesco visse sempre in maniera illibata e onesta sin dalla fanciullezza e sa che dovunque egli andava erigeva con­venti, come in Paterno, Spezzano Grande ed in altri paesi della Calabria, e che nessuno ebbe da ridire sul suo conto, perseverando di bene in meglio. La causa della conoscenza, perché sa, vide e sentì e fu anche presente quale nativo di Paola.

Circa il nono, affermò che trovandosi egli nel convento di Paola con Mastro Domenico Virgopia quando vi attendeva alla co­struzione Francesco disse allo stesso testimone e a Mastro Do­menico: «Andate da fra Stefano e ditegli di portarmi un carbone acceso e una candela per accendere la lampada». Essi andarono e riferirono a fra Stefano quanto loro richiesto; tornati da fra Francesco, egli, calando la cordicella a cui era appesa la lampada per poi lasciarla perché illuminasse, questa, non ancora ad altezza d’uomo, si accese da sola. Ciò vedendo il teste e Mastro Domenico rivolti al frate dissero: «Padre, vedete che la lampada s’è accesa da sé!». E Francesco: «Eh, sì, l’ho visto!». La conoscenza, in quanto fu presente, vide e sentì. Paola. Si tratta di circa sessanta anni or sono. Ha ammesso anche lo stesso come una sua nipote, di nome Margherita, gettando dell’acqua calda, una sera, ad un’ora di notte circa, storse improvvisamente la bocca in maniera impressionante, in modo che non era possibile farla tornare come prima, malgrado l’essere stato chiamato subito un medico. Fu portata quindi da fra Francesco, il quale consigliò: «Prendete un po’ di quest’erba», che stava dinanzi a lui, chiamata «cercimita»; «prendetene il succo e lavatele la testa; poi mettetele una fronda cotta di que­st’erba sul capo, e guarirà». Messo in atto questo consiglio, non si erano ancora allontanati da quel luogo, perché il giorno seguente, la ragazza tornò normale nella sua fisionomia naturale, come se nulla avesse mai avuto prima di allora. Del che il teste ha cono­scenza perché fu presente, vide e ascoltò. Paola. Fatto avvenuto circa quarantacinque anni or sono. Ugualmente disse che un tal Casello, essendo caduto da un albero di gelso, battè la testa contro una vite in maniera tanto grave da restare privo di sensi. Vedendolo cadere, fra Francesco corse, lo prese in braccio e lo portò in chiesa; gli asciugò il sangue e lo sedette sul gradino dell’altare; gli pose alcuni panni di lino e il malcapitato se ne tornò subito a casa, sano e salvo, come se nulla mai gli fosse capitato. Risulta al teste dalla conoscenza che egli ha dell’accaduto, perché fu presente e sentì. Luogo e tempo come sopra. Lavorando, un giorno, il testimone stesso al convento che Francesco edificava ed essendoci molta carestia, in Paola non si trovava pane; continue erano le mormorazioni degli operai, i quali niente avevano da mangiare. Fra Francesco allora si portò da loro, dicendo: «Comprendo bene che frate corpo ha bisogno di cibo». Trascorsa un’ora di lavoro, lo stesso testimone e gli altri operai videro una bestia carica con due sacchi pieni di pane; il frate chia­mò allora gli addetti ai lavori e li fece mangiare; la sera poi diede ancora loro del pane a sufficienza perché ne portassero a casa, e quel pane era tanto fresco e fragrante come se fosse uscito allora dal forno; lo stesso testimone non vide nessuno che lo avesse portato così fresco da qualche parte, perciò concluse, con tutta certezza, che non fosse dovuto al caso, ma per intervento diretto della Divina Provvidenza. Per conoscenza, giacché vide e fu pre­sente. Luogo e tempo come sopra. Ugualmente il testimone stesso ha affermato che essendo an­dato a potare la vite, si fece male al ginocchio, gonfiandosi la gam­ba, tanto da non potersi muovere per otto o nove giorni, non po­tendo poggiare il piede per terra. Non gli restò allora che, pian piano andare da fra Francesco e mostrargli la gamba gonfia, il quale vi pose sopra un empiastro, facendolo sedere ad un raggio di sole; nel medesimo istante fu guarito e lo mandò pure a trasportare della legna come se fosse stato sempre sano. Ragione della cono­scenza: giacché quanto egli afferma lo sperimentò nella propria persona. Paola. Ciò accadde circa quaranta anni or sono.

TESTE OTTAVO

18 luglio 1515, 15° dall’indizione  

Donna Margherita Baccaro, teste, esaminata con giuramento, circa il nono, omessi gli altri, ha affermato che una sera, gettando l’acqua fuori la porta di casa, si trovò con la bocca storta e gli occhi rivoltati all’indietro da sentirseli come li avesse addirittura dietro la testa. Il padre e i fratelli allora la accompagnarono da fra Francesco, il quale appena la vide, consigliò a coloro che la avevano accompagnata: «Prendete un po’ di quell’erba che cresce fuori il convento in costruzione, chiamata “cercimita” e mette­tene del succo sopra la sua testa; dopo le applicherete anche una fronda cotta e il Signore Dio le farà la grazia di ottenere la pri­stina sanità». Fatto quanto consigliato, nello stesso giorno la don­ na fu guarita e restituita come era prima, senza nessun segno di deformità o altro di anormale. La testimone stessa attribuisce tanto, ed è certa di essere stata guarita per le preghiere e le virtù di fra Francesco e non per l’erba. Il che attesta per essere il fatto avvenuto nella propria per-sona. Paola. Tempo circa quarant’anni.  

TESTE NONO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Mastro Domenico Virgopia, teste esaminato con giuramento porta la mano sopra le Sacre Scritture.

Circa l’ottavo, omessi gli altri, ha affermato che trovandosi con Giovanni Simone nel convento in costruzione, fra Francesco chiese a fra Stefano di prendere del fuoco e accendere la lampada, che il testimone aveva visto spenta. Fra Francesco allora, prese la corda per calarla, arrivata questa a mezza altezza, la si vide accesa da se stessa; il testimone stesso si premurò di avvertire: «Padre, non vedi che la lampada è già accesa?». Fra Francesco, quindi replicò: «E’ sufficiente che anche tu la vedi». Ciò per cono­scenza diretta e personale. Paola. Da circa cinquantacinque anni. E’ ancora lo stesso ad affermare che tornando da Paterno a Paola, insieme a fra Francesco, dove erano stati per trattare del luogo su cui doveva sorgere il convento, come poi fu costruito, di notte, al fioco lume di una lanterna, che reggeva questo testimone e un altro compagno, ora defunto; fra Francesco aveva pure egli un pezzo di torcia, spenta, legata con un filo al petto. Attraversando Tassano, casale di Cosenza, c’era qui una donna, assalita da ben tre giorni dalle doglie del parto; fu pregato allora il frate da una vedova perché soccorresse in questa necessità in cui versava quella puerpera. Fra Francesco portò la mano al petto, dove aveva quel pezzo di torcia, ne estrasse una candela con meraviglia di chi de­pone; il quale ritiene per certo che la torcia che aveva legata al petto s’era convertita in candela, in quanto il teste non aveva visto fra Francesco riporre una candela nel petto né vide più la torcia che invece aveva posto. Tale candela la diede alla suddetta vedova dicendole: «Va’ a mettere questa candela alla partoriente, perché presto sgraverà». Così fra Francesco e il suddetto teste prosegui­rono per Paola e vi giunsero di notte. Ciò perché sa, vide e fu presente. Paterno e Tassano. Da circa quaranta anni. Ancora è lo stesso a deporre. Due operai addetti alla costru­zione del convento, scavando, il terreno sprofondò sotto i loro pie­di, coprendo e l’uno e l’altro in tal modo che apparve subito ar­duo e difficile poter venire loro in aiuto; data la gran massa di terra, li si riteneva morti tutti e due. Fu chiamato fra Francesco, il quale vedendo tale terra su gli operai, disse ad altri di scavare in due distinte parti come egli indicava; i due malcapitati furono trovati sani e salvi, uno distante dall’altro. Il testimone stesso e quanti furono presenti alla scena ritennero il fatto un grande mi­racolo, tenuto conto della gran mole del terreno caduto sopra i due poveretti. In forza della propria conoscenza. Luogo e tempo come sopra. Lo stesso testimone ha deposto altresì: innalzandosi un muro perimetrale del costruendo convento, già in buona parte pronto al di sopra della roccia, presente egli con molta altra gente, si ac­corsero tutti che un intero lato di questo muro minacciava di crollare. L’imminente pericolo non sfuggì allo stesso fra France­sco, il quale, pronunciò solamente il nome «GESU’», facendovi il segno della croce; il muro si arrestò come si vede tuttora. Ancora lo stesso teste ha ammesso che lavorando un giorno al suddetto convento, mentre attendeva ad incanalare dell’acqua verso la fabbrica, trovandosi fra Francesco anch’egli a lavorare nel luogo sottostante, era necessario rimuovere un masso di una considerevole mole; avvertì lo stesso fra Francesco di scostarsi, perché quella gran pietra avrebbe potuto causargli del male; fra Francesco allora, per tutta risposta: «Bada a fare ciò che stai facendo e non ti preoccupare di me! Lasciala pure cadere!». Il testimone, assai prudentemente, replicò più volte tale avvertimento, ma invano. La pietra cadde, investendo il piede di fra Francesco, tanto che il testimone ritenne di averglielo rovinato o anche la gamba e gridando corse verso di lui; fra Francesco, con tutta calma, lo ras­sicurò che non gli era successo niente di male, mostrandogli il piede sano e salvo, mentre il testimone credeva che glielo avesse spezzato. Questo per conoscenza, perché era presente, vide, e sentì. Paola. Cosa accaduta circa quaranta anni fa. Circa il decimo, ha ammesso che il frate era di santa vita, tanto in fatto di astinenza che come cibo e riposo. Una volta fra Francesco, tra le altre, sentì di aver fame e chiese al testimone se avesse qualcosa da mettere sotto i denti; questi rispose di avere soltanto un po’ di pane, glielo porse ed egli prese a mangiarlo con dell’erba selvatica, quasi fosse un cervo. Il teste, sorpreso, gli disse: «Padre, vi sentite poco bene e mangiate una qualsiasi erba come se foste un cervo?». «No per carità», gli disse fra Francesco, «questa erba è buona!». Il che sa per conoscenza diretta e personale perché vide e sentì. Luogo e tempo come sopra.  

TESTE DECIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Bartolo Perri di Paola, teste, esaminato con giuramento po­nendo la mano sopra le Sacre Scritture.

Circa il primo, ha ammesso che la provincia di Calabria è stata sempre cristiana e sotto la ubbidienza della S. Chiesa Cattolica e Romana; Paola fa parte della provincia di Calabria, e ugualmente è stata sempre cristiana, da cento o anche duecento anni e, a me­moria d’uomo non v’è alcuno che possa ritenere il contrario. Ne ha conoscenza, perché sa, come cittadino di Paola, sin dal tempo che egli ricorda. Circa il secondo, ha ammesso che Giacomo di Martolilla, pa­dre di fra Francesco, nacque in Paola, dove fu pure battezzato; tutto il tempo della sua vita visse onestamente come cristiano. Sem­pre andava vestito con un abito vile e rozzo e senza la camicia; non mangiò mai carne, ma solo cibo consentito durante la quaresima. Ne ha conoscenza, anche perché vide, fu presente e sentì. Luogo come sopra e il tempo da circa sessanta anni.

Circa il terzo, ha affermato che la madre del suddetto fra Francesco, era donna dabbene, di buona vita e cristiana buona, sempre rimase e visse nella fede cattolica. Ne ha conoscenza co­me sopra.

Circa il quarto, disse di sapere che Giacomo e Vienna erano marito e moglie con matrimonio contratto secondo la formula pre­scritta e, come al presente, secondo il rito della S. Romana Chiesa; sempre vissero in santa pace e serenità come si conviene a buoni cristiani; tali furono da tutti ritenuti e stimati in Paola. Ne ha co­noscenza come ha affermato sopra.

Circa il quinto, ha detto che da Giacomo e da Vienna nacque e venne al mondo fra Francesco. Da questo legittimo matrimonio e da Giacomo e Vienna fu nutrito e allevato il figliolo; così è stato ritenuto e reputato da tutti. Ne ha conoscenza, perché lo sa e co­nosce anche per averlo sentito dire dagli altri. Luogo e tempo come sopra.

Circa il sesto, ha detto di sapere per fama che Giacomo e Vien­na, come nacque il loro bambino lo fecero battezzare e lo chiama­rono Francesco; lo fecero anche cresimare e sempre con lo stesso nome di Francesco fu conosciuto da tutti. Ne ha conoscenza. Come sopra.

Circa il settimo, ha detto di sapere che fra Francesco, durante la sua infanzia, visse sempre secondo la legge di Dio e come buon cristiano e dovunque egli andava edificava ed erigeva conventi: in Paola, Paterno, Spezzano e altrove pure, crescendo sempre di bene in meglio. Dovunque egli dimorava le persone vi accorrevano numerosissime, chiedendo rimedi per i malanni da cui erano af­flitti, e tutti ne restavano contenti e soddisfatti; nessuno tornava indietro per non aver riportato un esempio edificante per la sua vita, perciò lo ritenevano un santo. In forza della conoscenza che ne ha. Luogo e tempo come sopra.

Circa il nono, ha detto che, avendo lo stesso testimone un bue, il quale aveva un occhio sfigurato, tutto bianco, con il quale non vedeva da oltre un mese; lo portò allora da fra Francesco di­nanzi al convento di Paola; appena egli lo vide, guardò a terra e disse al testimone stesso: «Prendi un po’ di questa erba», che cre­sceva proprio sotto i suoi piedi, davanti al convento, la quale erba veniva chiamata «tuffa»; «e mettine un po’ di succo nel suo occhio, il Signore farà la grazia». il testimone raccolse un po’ di quell’erba, la spremette per ricavarne del succo e metterlo nel­l’occhio della bestia, la quale si spaventò, tanto da credere che non ve ne fosse entrato nell’occhio; senonché, nello stesso giorno, l’occhio del bue fu guarito e tornato come prima, sì da non sembrare che la povera bestia avesse mai avuto male alcuno. Per aver conosciuto direttamente il fatto. Paola. Avvenuto ciò da circa quaranta anni.E’ sempre lo stesso testimone che ha affermato, che avendo, egli due suoi fratelli ammalati in Paola, si recò a Paterno, dove si trovava fra Francesco, al quale espose la situazione in cui ver­savano i suoi due fratelli. Fra Francesco rispose: «Per quello che si chiama Luca, il Signore s’è benignato di fargli già la grazia, per l’altro, cioè Nicola, il Signore lo vuole con sé; quindi andar po­tete, perché Luca guarirà, a Nicola poi direte che provveda a te­ner pulita la casa, cioè la coscienza». Tornato quindi a casa, in ef­fetti trovò Luca guarito del tutto; Nicola se ne morì dopo cin­que o sei giorni. Ciò per la diretta e personale conoscenza. Paterno. Da circa trentacinque anni. Circa il decimo ha affermato che fra Francesco visse onesto, probo e santo come si conviene a un buono e perfetto cristiano, operando moltissimi miracoli, e perseverando sempre di bene in meglio. Ciò detto che lo stesso conosce personalmente e ha saputo anche dagli altri. Luogo e tempo come sopra.

TESTE UNDICESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Luca Perri, di Paola, testimone esaminato con giuramento. Circa l’ottavo, omessi gli altri, ha detto che sua madre stette per tre giorni e tre notti nel travaglio del puerperio e per un giorno

ed una notte intera aveva perduta la parola, tanto che le due le­vatrici che l’assistevano la ritennero morta. Il testimone allora ri­corse, piangendo, a fra Francesco, dicendogli: «Padre, mia ma­dre non può partorire, ed è quasi morta; per amor di Dio, consi­gliatemi qualche rimedio e supplicate il Signore perché voglia che tutto vada bene». Fra Francesco gli rispose: «Non piangere, va con Dio, perché non è ancora tempo che partorisca». Tornato a casa, trovò ancora che la madre non parlava. Le levatrici gli chie­sero: «Be’, cosa ti ha detto fra Francesco?». «Non è arrivato ancora il tempo di partorire». Le levatrici allora, esclamarono: «Non c’è più tempo da perdere; costei è già morta!». Il testimone nuovamente, torno correndo da fra Francesco e gli disse: «Padre, mia madre se non è morta, sta quasi per morire; per ca­rità, suggeritemi un qualche rimedio!». E fra Francesco rassicu­randolo: «Va’ pure, perché manca ancora un’ora perché tua ma­dre partorisca». Le levatrici con il fiato ancora sospeso: «Cosa ti ha risposto questa volta fra Francesco?». «Mi ha detto che ci vuole ancora un’ora perché partorisca!». «Allora — conclu­sero le due assistenti al parto vuoi dire che la poverina se n’è già morta; inutile aspettare ancora e vivere in tale ansia e an­goscia». Per la terza volta il buon figliolo tornò, lacrime agli oc­chi e il cuore in gola, dal buon frate: «Padre, mia madre deve essere sicuramente già morta!». Il frate, in tutta calma: «Per carità! Non piangere. Tua madre ha dato alla luce una figliolina». Con la speranza nel cuore, il testimone di corsa tornò a casa; sua madre aveva dato alla luce una sorellina; la puerpera felice e di già fuor di doglie e da qualunque pericolo. Il testimone ritiene che fra Francesco avesse saputo ciò per una visione angelica e non diversamente, giacché in quel continuo andirivieni non aveva tro­vato persona alcuna che avesse potuto dirglielo. E sa questo per diretta personale conoscenza. Paola. Data come sopra. Da circa quaranta anni. E’ ancora lo stesso a testimoniare come egli, avendo una gamba colpita da quel male, comunemente chiamato «sciatica», e venendo curato da molte donne curatrici del luogo, niente aveva potuto ottenere; inchiodato a letto per ben tre mesi, compen­sava in denaro e in natura le dette donne, senza poter venire in capo a nessun risultato. La madre allora si caricò sui collo il figliolo sofferente, il quale non poteva neppure poggiare il piede per terra. Trovarono fra Francesco che scavava una buca per piantarvi una croce; e come li vide disse loro: «Andate e aspettatemi là», in­dicando loro un luogo ivi discosto. Arrivato fra Francesco, prese una caldaia piuttosto grande, vi versò dell’acqua e insieme della cenere, accese il fuoco e li pose a bollire; prese di quell’acqua calda, ne lavò la gamba sofferente, che al testimone sembrò acqua fresca come se fosse una rosa. La mattina seguente si svegliò sano e guarito come niente avesse mai avuto. Ciò per conoscenza diretta e personale. Paola. Tempo come sopra. Circa il decimo, ha detto che, fra Francesco godette sempre fama di una vita santa e dove andava, edificava conventi grandi e ammirevoli, senza interventi straordinari di signori, ma solamente con offerte spontanee di persone devote. Dovunque egli si trovava, accorreva una infinità di persone per chiedere rimedi onde gua­rire e ognuno se ne tornava alla propria casa contento e soddisfat­to, con la grazia ricevuta. Tutti rimanevano edificati per il tenore della vita che menava, ritenendo per sicuro e certo che i miracoli che operava, li otteneva da Dio per le sue virtù e per la sua in­tercessione presso Dio e non per altro, tanto più che non era per­sona colta né mai aveva appreso alcunché. Anche questo sa per la conoscenza diretta. Luogo e tempo come sopra.

TESTE DODICESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Donna Bella, vedova del defunto Giovanni Brogni, esami­nata con giuramento.

Circa l’ottavo e il nono, omessi gli altri, ha detto che cala­fatando suo marito una nave, mentre bolliva una caldaia di pece, nel salire sopra l’imbarcazione incespicò e la pece gli investì la faccia e il petto in modo da bruciarlo in maniera molto grave; gridava in modo spaventoso. Lo portarono immediatamente da fra Francesco, nel convento da lui edificato. Lo trovarono men­tre tritava una certa erba; ne cavò del succo e lo spalmò sopra le scottature del suddetto paziente; lo trattenne quindi per circa otto giorni presso di sé, dopo lo rimandò a casa, guarito completamente senza alcuna cicatrice, come se niente avesse avuto a su­bire. Fra Francesco mentre preparava tali rimedi non aveva potuto avere nessuna notizia che al detto Giovanni era caduta addosso la pece. Ritiene per certo che egli lo abbia saputo per di­vina ispirazione. La testimone ne è a conoscenza perché presente e così sentì pur dire. Paola. Da quaranta anni circa. Ugualmente la testimone stessa ha aggiunto: lei stessa, stando affacciata ad una finestra di casa sua, cadde, fratturandosi un braccio con fuoruscita dell’osso. Ricorse, necessariamente agli ortopedici, facendoselo curare per circa otto mesi, giacché un frammento osseo era fuoruscito, né era stato possibile estrarlo; e non guarì, perché non poté usare liberamente la mano. Mandò, quindi, un certo Angelo da fra Francesco, il quale si trovava allora in Paterno; gli fece raccontare il caso, esponendogli minutamente come un frammento osseo non era potuto rientrare nella sua naturale sede, né poté essere estratto dai medici, per cui ella stava ancora con la mano ferita e non poteva alzarla. Fra Francesco le inviò un certo empiastro da applicarvi; al vespro fu posto e al mattino seguente il frammento dell’osso era uscito fuori; la mano tornò guarita, senza lasciare traccia o cicatrice di sorta. Questo la testimone  lo attesta perché occorso nella sua stessa persona. Paola. Fatto accaduto circa trentacinque anni or sono.  

 

TESTE TREDICESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Il nobile Bernardino Baldorio, testimone esaminato con giuramento. Circa il nono, omessi gli altri, ha detto che il muto che fra Francesco aveva guarito e che non aveva mai prima parlato, del quale n’è fatta parola sopra dal Signor Giovanni de Antonachio, riavuta la parola, ha servito come garzone presso il padre dello stesso testimone, sanissimo e con la favella la più esatta e pre­cisa, avendolo così servito per circa due o tre mesi. Questo co­me personale e diretto attestato. Paola. Da circa quaranta anni.  

 

TESTE QUATTORDICESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Mastro Pietro Genovese, teste esaminato con giuramento con la mano sopra le S. Scritture, circa il nono, omessi gli altri, ha affermato che essendo venuto dal suddetto fra Francesco un tale da Rende a Paola — quel paese dista da Paola dodici miglia — e avendo portato in dono al medesimo certi pesci d’acqua dolce, infilzati per la gola, li presentò a fra Francesco, il quale li guardò e prenden­doli nelle sue mani: «Guardate come avete imprigionati questi poveri esseri»; e li sfilò a uno a uno e li mise in una vaschetta d’acqua e subito guizzarono vivi e saltellarono. Alla vista dei pesci morti che cominciarono a rivivere, il testimone e altri presenti ver­sarono lacrime di gioia e gridarono al miracolo perché aveva «fat­to rivivere nell’acqua i pesci morti!». Per conoscenza diretta. Pao­la, da circa quaranta anni. Il testimone stesso ha pure ammesso che, trovandosi una povera donna, nella Terra della Regina, in Calabria, diocesi di Bisignano, da circa un anno, preda dello spirito demoniaco, invasata e tenuta incatenata, perché dava in ismanie e in escandescenze irrefrenabili, la portarono a Paola da fra Francesco, il quale la fece accompa­gnare in chiesa, le praticò l’esorcismo, liberandola dal maligno. La poveretta guarita, fece ritorno a Regina. Ciò è attestato per conoscenza personale e diretta. Paola. Tempo come sopra. Ugualmente lo stesso testimone, trovandosi, egli a lavorare con altri, al monastero, sopra un’erta ripida e scoscesa, gravata da un masso di circa tre quintali. Ciò vedendo fra Francesco e te­mendo un grande danno per quanti si trovavano al di sotto, fece subito il segno della croce in direzione del masso che scendeva e invocò il nome di Gesù Cristo, e immediatamente il masso si fermò, arrestando la sua corsa nella caduta. Per conoscenza diretta e per­sonale. Luogo e tempo come sopra. Ancora, lo stesso testimone, ha deposto che avendo poste le candele sopra  l’altare per la messa da celebrare nel convento in costruzione; all’inizio della Messa le candele erano spente; fra Francesco aveva nelle sue mani una candela accesa, mentre egli, inginocchiato, pregava ai gradini dello stesso altare; solo con il mostrare quella candela accesa nelle sue mani, alle spente sopra l’altare, queste si accesero da sé. Anche ciò è da conoscenza di­retta e personale. Luogo e tempo come sopra.E’ ancora lo stesso testimone ad ammettere che un enorme macigno ostacolava il luogo dove si voleva costruire il convento; trenta uomini non avrebbero potuto smuovere un cosiffatto mas­so, il quale, oltre tutto, era di tale durezza e consistenza, che la­vorandovi intorno robusti e nerboruti operai, non sarebbero riu­sciti a scalfirlo minimamente, né a rimuoverlo dal posto ove si trovava. Nel darvi sopra con la mazza un operaio si fece male alla mano bestemmiando il cordone di San Francesco. Fra Francesco allora mandò gli operai a far colazione, mentre egli si chiudeva dietro le porte della chiesa, restandovi solo. Tornati tutti a lavorare, la pietra non c’era più al posto di prima, ma caduta sul greto del vicino fiume; al posto di prima scorsero solamente un gran vuoto. Constatato essere avvenuto per miracolo questo fatto, il teste e gli altri non poterono far altro se non constatare la realtà di vero miracolo. Questo da diretta e personale conoscenza. Luogo e tempo come sopra. Circa il decimo, ancora ha affermato che fra Francesco visse sempre con la più grande onestà, perseverando in continuazione di bene in meglio; dovunque egli andava edificava qualche con­vento grande e ragguardevole, come in Paterno, Spezzano e Co­rigliano e altrove; operava molti miracoli e sempre accorrevano a lui moltissime persone in cerca di rimedi per guarire dai loro mali; e tutti se ne tornavano contenti e benedicendo Iddio per le grazie ricevute in fatto di salute fisica e spirituale, sempre attri­buendo tutto alle virtù e alle preghiere di fra Francesco. Questo per conoscenza personale. Luogo e tempo come sopra.

 

 

TESTE QUINDICESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Luca Catarro di Paola, teste esaminato con giuramento e con la mano sopra la S. Scrittura. Circa il nono, omessi gli altri, ha detto che, trovandosi, egli, nel convento edificato da fra Francesco, venne una persona da Rende, distante da Paola dodici miglia, por­tando con sé dei pesci di acqua dolce infilzati per la gola, che egli asseriva di aver presi il giorno precedente. Li presentò a fra Fran­cesco, il quale, li prese e disse: «Perché mai avete messo in prigione questi poveri animaletti?»; e così cominciò a sfilarli uno dopo l’altro, e li pose in una conca d’acqua; essi, tornati vivi, pre­sero a nuotare in quell’acqua come se mai fossero usciti, re­stando vivi due o tre mesi. Tanto per conoscenza diretta e per­sonale. Paola. Tempo come sopra.Circa il decimo lo stesso testimone ha affermato di sapere che fra Francesco visse sempre onestamente e santamente; con­duceva una vita austera da non essere stato mai visto mangiare, se non in alcuni giorni solenni dell’anno. Progrediva continuamen­te di bene in meglio, edificando conventi ammirevoli e grandi. Operava anche molti miracoli. Assai di frequente accorreva da lui moltissima gente dovunque dimorava, domandando rimedi per le loro malattie, e tutti se ne tornavano lieti e contenti per aver ottenuto la grazia della loro guarigione per merito delle sue virtù e delle sue preghiere. Quanto il testimone ammette è per cono­scenza diretta e personale; a Paola e altrove. Questo ricorda sino al tempo che fra Francesco partì per la Francia.  

 

TESTE SEDICESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Antonio d’Alessio di Paola, testimone esaminato giurando con le mani sopra la S. Scrittura. Circa il nono, omessi gli altri, ha detto che avendo un braccio contratto da non poterlo stendere né consentirgli di fare alcun movimento, pur avendo fatto lozioni e cure per oltre un mese, non vide segno di miglioramento. De­cise perciò di recarsi da fra Francesco, il quale operava miracoli a quanti andavano a pregarlo. Lo trovò che zappava in un fondo per aprire la via di accesso al convento; appena lo vide gli disse: «Ti sei ricordato troppo tardi di venirmi a trovare; per carità, devi venire più spesso da queste parti». Così dicendo gli porse una zappa, perché lo aiutasse a tracciare la strada; il teste la prese con la sola mano valida, impossibilitato a farlo con l’altra, pur non di meno, ci provò, inutilmente. Fra Francesco allora gli disse: «Per carità, va’ in convento e dirai a fra Francesco Majorana di riscaldare dell’acqua, quindi torna da me». Il teste fece come gli era stato detto; tutto qui, e fu guarito, quindi chiese di poter tornarsene a casa, dove arrivò sano e salvo, come se non avesse sofferto alcun male. Questo per averlo constatato di persona. Paola. Da circa trentacinque anni. Lo stesso testimone ha ammesso che avendo fra Francesco apprestava una fornace per cuocere la calce, dopo averla accesa, la violenza del fuoco stava per farla crollare; non potendo gli addetti ai lavori intervenire, chiamarono fra Francesco, avverten­dolo dell’imminente pericolo; mentre tutti si allontanavano per la colazione, restò solo dinanzi alla fornace. Alla ripresa del lavoro, tutto era tornato normale come se non fosse mai accaduto niente. E ciò per aver visto con i propri occhi sin dal primo momento che si iniziò a costruire il convento. Circa il decimo, lo stesso testimone ha affermato di sapere che il suddetto fra Francesco visse sempre godendo buona fama di vita integerrima e in tal maniera era solito parlare e conver­sare. Progrediva continuamente di bene in meglio; edificando ovunque  conventi assai dignitosi e accoglienti; operava in continua­zione molti miracoli e una infinità di gente accorreva da lui per avere grazie dal Signore, nelle loro infermità, e tutti se ne torna­vano benedicendo Iddio riconoscendo che ottenevano favori tanto singolari per le virtù e le preghiere di fra Francesco. Per conoscenza diretta e personale. Luogo e tempo come sopra.  

 

TESTE DICIASSETTESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Giordano Carincella di Paola, teste esaminato con giuramento.

Circa il nono, omessi gli altri, ha ammesso che avendo sua moglie un male caduco, ne soffriva da circa quattro mesi; de­cisero di andate da fra Francesco per chiedergli un qualche ri­medio perché la moglie potesse venire in capo a qualcosa e star meglio. Arrivati alla porta del convento, fra Francesco era lì come ad attenderli ed esposero a lui il loro pressante bisogno. Fra Fran­cesco condusse la inferma nella sua cella, dandole due fichi e un sorso di vino; immediatamente l’ammalata guarì e quel che l’af­fliggeva periodicamente non ebbe mai più a ripetersi. Ciò per averlo sperimentato nella persona della propria moglie. Paola. Da circa quaranta anni. Lo stesso ha pure ammesso che venne un uomo da Maratea, cieco del tutto da sette anni, attirato dalla fama dei miracoli di fra Francesco, il quale si trovava allora nella chiesa ad ascoltar Messa. Il frate lo fece inginocchiare e lo segnò della croce; co­stui cominciò a gridare: «Misericordia, misericordia, Signore! Non ci vedevo più da sette anni e ora mi avviene poter mirare il Corpo di Cristo!». Guarito così dalla sua cecità fece ritorno a casa sua, restituito completamente nella vista, come se mai l’avesse perduta. Dalla sua personale conoscenza. Paola. Tempo come sopra. E’ ancora lo stesso a testimoniare come una mattina fu as­salito da un improvviso dolore alla gamba da non poterla in nes­sun modo poggiare a terra. Andò da fra Francesco e gli disse: «Padre, vi prego di darmi qualche rimedio, perché non posso cammi­nare con questa gamba». Fra Francesco rispose: «Sei stato un cattivo figliolo, giacché hai avuto parole con tua madre ieri sera; guardati dal farlo un’altra volta!». In realtà quegli aveva avuto una questione con sua madre e ritiene con tutta certezza, che fra Francesco nulla avesse saputo né sentito dire da persona alcuna, ma saputo per divina ispirazione. Fra Francesco lo chiamò, indicandogli dove stava una trave, che non potevano smuovere un paio di buoi, e gli ordinò, per carità, di prenderla e portarla sino al convento. Il testimone gli rispose: «Ma come potrei farlo tanto grande e così pesante; e poi, non vedete che sono storpiato!». Fra Francesco per tutta risposta: «Provati, per carità, e vedrai che sarai ca­pace!». Il testimone la prese e la portò al convento senza alcun fastidio, ottenendo così la guarigione. La conoscenza è quella diretta personale. Luogo e tempo come sopra. Circa il decimo, ha detto di sapere che fra Francesco viveva onestamente e santamente, perseverando sempre di bene in me­glio, edificando conventi importanti, e operando molti miracoli. Molte erano le persone che vi accorrevano dovunque egli si trovava, tornandosene con la gioia nel cuore per le grazie ricevute. Questo stesso testimone aggiunge di non aver visto fra France­sco mangiare se non in alcune feste solenni dell’anno, insieme agli altri suoi frati, e solo legumi, scaldati pure. Ecco quanto sa dalla sua conoscenza diretta e personale, e per averlo sentito dire anche altrove, in Paola, Paterno e Spezzano. Tempo come sopra.  

 

TESTE DICIOTTESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Nicola Caruso, di Paola, teste esaminato con giuramento. Circa il nono, omessi gli altri, ha detto che avendo fra France­sco apprestato la fornace della calce per costruire il convento; ac­cesa che fu e rimasta così un giorno intero e tutta la notte, minacciava di crollare. Gli operai addetti a cuocere la calce videro che non potevano far niente; perché non ruinasse del tutto, chia­marono fra Francesco, avvertendolo dell’imminente pericolo. Egli li tranquillizzò: «Non abbiate, per carità, a preoccuparvi di niente; andate pure e fate colazione».. Restò quindi egli solo; quando poi quelli ebbero finito di rifocillarsi, trovarono la fornace ri­parata e rinforzata, tanto da sembrare ricostruita; continuò essa ad ardere e ad apprestare la calce per la fabbrica. Tanto per la sua personale conoscenza. Luogo e tempo come sopra.  

TESTE DICIANNOVESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Marino Sesamo di Paola, testimone esaminato con giuramen­to. Circa il nono, omessi gli altri, ha affermato che avendo egli un paio di buoi, fra Francesco un giorno gli disse di aver bisogno di una trave, da cui ricavare un giogo per la campana. «Per ca­rità, andiamo sino al fiume Petricio».. Era già quella l’ora del vespro inoltrato. Marino gli fece osservare: «Padre mio, come è possibile muoversi che cade di già la notte?».. Fra Francesco, per tutto risposta replicò: «Andiamo, ti dico, per carità, e avre­mo tutta il tempo di tornare».. Vi andarono, e trovarono la trave immersa nel fiume, impossibile a loro due solamente poterla ti­rare fuori dall’acqua profonda. «Non vi accorgete, Padre, che non è assolutamente possibile da soli tirarla fuori dall’acqua e salirla dove voi volete?». «Va’, e, per carità, fa’ delle corde per legare il legno».. Il carrettiere vi andò; al suo ritorno trovò quel grosso legno sistemato al posto voluto e bucato già da fra Francesco. Non mancava altro che sistemano sopra il mezzo di trasporto e arrivare al convento. Tutto richiese il tempo di due ore ap­pena, sufficienti perché i due non fossero colti dal buio della notte;  mentre il testimone credeva di non farcela neppure sino a notte assai inoltrata e che non vi sarebbero bastati dieci uomini robusti e capaci. Per conoscenza diretta e personale. Paola. Quanto sopra avvenne quaranta anni fa. Circa il decimo, poi, ha affermato che fra Francesco visse sempre godendo ottima fama e fu di edificante condotta; dovun­que egli andava edificava conventi ammirevoli e operava numerosi miracoli. Quasi tutti i giorni accorreva a lui gran numero di per­sone, chiedendo intercessione nelle infermità e bisogni spirituali; tutti ritornavano contenti e soddisfatti per le grazie ricevute, per­severando egli sempre, di bene in meglio. Conduceva altresì una vita veramente santa; non mangiava mai cibi che non fossero di quelli strettamente quaresimali; anzi non lo si vedeva mangiare, se non nei giorni più solenni dell’anno, come il giorno di Natale, la Resurrezione del Signore, e, anche in queste solennità, il solo suo piatto consisteva in legumi riscaldati.  

TESTE VENTESIMO

Stesso giorno 18 luglio 1512, 15° dall’indizione  

Nicola Angelo Perrimezzi, di Paola, testimone esaminato con giuramento e con le mani sopra le Scritture.

Circa il nono, omessi gli altri, ha detto, che lavorando, egli ed un suo fratello di nome Bernardo, ora defunto, questi, nell’ag­giogare un bue, ebbe una incornata in un occhio e quanti lo guar­davano affermavano che lo avrebbe perduto. Il testimone lo ac­compagnò al convento, dove trovavasi fra Francesco, il quale era sulla strada con gli altri frati, intenti a sistemare l’accesso al con­vento. Appena fra Francesco li vide, senza sapere quel ch’era successo e per qual ragione essi venivano da lui, esclamò: «Siete stati pagati per la giornata di oggi!». Esaminata la ferita subita da Bernardo: «Abbiate pazienza, disse, per carità, e venite con me al convento!». Vi andarono e fra Francesco legò l’occhio con una benda di lino ed essi fecero ritorno a Paola. Il giorno seguente furono di nuovo da fra Francesco, il quale guardò un’altra volta l’occhio e questo era bello e guarito, vedendoci meglio di prima, tanto che tornò in campagna ad arare. Così da conoscenza personale e diretta. Paola. Questo trentotto anni or sono. Lo stesso teste ha detto che essendosi recato a raccogliere delle prugne nel campo di un suo vicino, cascò dall’albero, pro­ducendosi una ferita in fronte a forma di croce assai profonda e che destava pericolo. Tornando a casa, s’imbattè lungo la strada con fra Francesco, il quale stava sistemando la via che menava al convento; come lo vide, rivolgendosi al teste, in tono scher­zoso, gli domandò: «Erano gustose quelle prugne? Un’altra volta non consentite a Frate Corpo tanto facilmente!». Il te­stimone, però, non aveva aperto bocca, né profferita parola alcuna della sua vicenda per essere caduto; quindi egli ritiene per certo che il frate tutto sapesse per ispirazione divina. Lo portò al convento e gli pose sulla ferita un po’ di sale e di allume, fascian­dolo con un panno di tela e dicendogli di tornarsene a casa. La mattina seguente poi gli pose ancora un pochino di quella polve­rina; la sera stessa egli si trovò perfettamente guarito senza ci­catrice alcuna. Conoscenza, questa, diretta e personale. Paola da circa quaranta anni. Circa il decimo, affermò che fra Francesco visse sempre nella più grande esemplarità di vita e di santità, la più ammirevole; il che affermano tantissimi altri. La causa della conoscenza come sopra.

>>> segue processo 2