di Antonio Cuccia, per gentile concessione di "Milazzonostra"
Il 22 ottobre 1636, lo scultore Gaspare di Miceli, citato anche col doppio cognome Miccichè, specificato quale "crocifìssarius" e operante a Palermo, s'impegna con Rocco Polito, a nome del medico Nicola Maria Corbo di Milazzo, a scolpire un Crocifìsso vivo, in legno di tiglio, della stessa grandezza e della stessa fattezza di quello in possesso della contessa Barresi. L'opera, che è richiesta senza la croce, deve essere consegnata entro il mese di novembre, con un compenso pattuito di 15 onze.
Il Crocifisso in questione è stato da me identificato con quello esistente nella chiesa milazzese del Rosario (San Domenico), per i chiari riscontri stilistici e tipologici. Il Cristo, disposto secondo una direttiva assiale, con le braccia distese orizzontalmente, descrive con la figura un leggero moto rotatorio, marcato dal capo inclinato alla sua sinistra e dal ginocchio destro prominente, che non inficia l'assetto frontale.
L'abusato ricorso degli studiosi ai modelli propugnati
da frate Umile e frate Innocenzo, qui trova un riferimento appropriato nella figura
smilza, nel dosaggio delle ferite, nella foggia del perizoma ripiegato con bandolo
e ricaduta sul fianco destro, lasciato scoperto con la cordicella di sostegno a
vista. In tal modo il Di Miceli sfrutta il fortunato stereotipo, con la variante
determinante del capo eretto, nella rappresentazione del Cristo vivo, col viso marcato
dagli occhi sgranati. Le sole note di modernità, data l'avanzata datazione in pieno
barocco, sono il segnato patetismo del volto e la contenuta compostezza classicista
del nudo.
Il Di Miceli non apporta cambiamenti sostanziali riconducibili al trionfali-smo
barocco, e nel rappresentare il Cristo vivo, scarta l'immagine del Cristo vincitore
della morte, preferendo riproporre il Cristus dolorosus ancora legato ad esisti
controriformati di esemplare ostentazione e di codivisione del dolore. La stessa
com-mittenza spesso suggeriva le direttive, come risulta espressamente da un contratto,
sottoscritto dallo scultore con Pietro Valdina marchese di Rocca, in data 11 luglio
1635, in cui è richiesto un Crocifisso "con tutti i muscoli spicati et apparenti
e farvi la tovaglia indorata e graffita di bianco et lo titulo deorato in campo
azolo con suo cartoccio.
Il DI Miceli col suo Crocifisso codificato apre in tal modo un filone che riscuoterà vasti consensi in gran parte del territorio isolano, considerando che le sue opere si ritrovano nel messinese, nell'ennese, oltre naturalmente che nel palermitano, proprio perché i suoi simulacri assumono valore carismatico. Emblematico, in questo senso, è il caso del Crocifisso, detto della Provvidenza, della cattedrale di Nicosia, non a caso ritenuto per lungo tempo opera di frate Umile da Petralia. L'opera gli viene commissionata il 20 giugno 1630 da don Giovanni Lo Gussio, a nome di don Vincenzo Nicosia, don Vincenzo Salamone e don Pietro Terrò, di Nicosia. Il contratto prevedeva un Crocifisso vivo, in legno di pioppo, alto 8 palmi, con la croce di noce alta 18 palmi, chiodi di ferro e tabella intagliata, da consegnarsi a Palermo entro il 15 agosto, per 25 onze.
Risulta chiaro che il nostro tenesse bottega a Palermo dove, sicuramente con l'aiuto di apprendisti, confezionava i suoi crocifissi con una rapidità proverbiale, impiegando almeno un mese di tempo, solo raramente due mesi, a seguito delle pressanti richieste. Il Mendola gliene documenta almeno uno all'anno, a partire dal 1628 fino al 1640, ma bisogna tener conto di tutti quelli che gli si possono attribuire, come il Crocifisso vivo della chiesa palermitana di S.Anna.
A questi bisogna aggiungere opere di altro genere, come la Madonna di Trapani, documentatagli dal Mendola al 20 maggio 1620 per la congregazione dei Regi Algozeri, dipinta con colore bianco e perfili d'oro, per la chiesa palermitana dell'Annunziata, ancora esistente, da me individuata in deposito presso la chiesa di San Francesco Saverio. Nel 1633 Giancola Viviano, affermato artista operante in più campi, condivide con lui l'esecuzione del gruppo della Madonna del Carmelo , destinata ad una chiesa di Reitano, riservando per sé la figura di San Simone e lasciando al Di Miceli quella più impegnativa della Vergine. Il gruppo, appena restaurato, è conservato nella chiesa madre e offre una possibilità di raffronto fra i due scultori. Anche il Di Miceli, come il Viviano, si dedica alla realizzazione di apparati effimeri, come quello documentato da Mendola al 7 aprile 1625, quando realizza nove statue in cartapesta e tela gessata, per / 'arco trionfale innalzato dai Catalani per il festino di Santa Rosalia.
E' interessante
notare che, al contrario di altri scultori, lo stesso Gaspare provvedesse alla policromia
dell'opera che, nel caso dei crocifissi, si rendeva peculiare nell'uso della ceralacca
per la definizione delle ferite; non a caso il 9 luglio 1640 viene incaricato di
"incarnare" un Crocifisso grande per i P.P. Scolopi di Palermo,
Le notizie d'archivio reperite dal Mendola , documentano ben vent'anni di attività
dello scultore, dal 1620 al 1640; purtroppo non sono venuti fuori i dati anagrafici
e i rapporti parentali, per cui si può soltanto ipotizzare un rapporto in tal senso
con Vincenzo e Giuseppe Di Miceli, padre e figlio, due scultori agrigentini, operanti
a Palermo e documentati nel 1609 a Partinico e ad Alcamo.
Ci sarà tempo per ritrovare
i tasselli che mancano per venire a capo della vicenda che riguarda i tre scultori;
quello che conta, per adesso, è il dato positivo scaturito dalle opere acquisite
che, attraverso le costanti che definiscono uno stile, permettono il riconoscimento
di opere ancora immerse nell'anonimato.
Proprio l'acquisizione dei dati concernenti la personalità di Gaspare di Miceli,
mi offre la possibilità di risolvere un caso assai controverso, quello del Crocifìsso
di Belice, su cui si è spesa tanta letteratura. Sulla leggendaria origine e sul
percorso storiografico inerente al Crocifisso, venerato nel rurale santuario di
Belice, tra Marianopoli e Villalba, in territorio di Petralia Sottana, ha fatto
chiarezza Felice Dell'Utr. Nella disamina lo studioso confuta l'attribuzione, fatta
da Alessandro Giuliana Alajmo e da Guido Macaluso, a frate Innocenzo da Petralia,
per evidenti dissonanze stilistiche.
Di contro, tutti gli autori chiamati in causa concordano sull'anno di esecuzione, il 1638, e sulla commissione da parte del Padre Guardiano del convento dei Frati minori di Petralia Soprana, Michelangelo La Placa, per farne dono nel 1645 alla duchessa Ferrandina Alvarez. Rosolino La Mattina 9 invece contesta la donazione riportando gli esiti di uno studio di Emanuele Valenti, secondo cui proprietario del feudo di Castel Belici, dal 1635 al 1648, fu un certo abate Antonino Castiglione e non Maria Alvarez di Ferrandina documentata invece, nei primi del secolo XIX, la stessa che nel 1832 ne cedette la proprietà. Lo stesso La Mattina, che riporta tutta la bibliografia in proposito, concorda nel negare a frate Innocenzo la paternità dell'opera. Indubbiamente i due autori colgono nel segno nell'escludere l'opera dalla produzione dello scultore francescano, tuttavia non si può disconoscere un sottile legame con questa, sul piano tecnico e spirituale, ma certamente non sulla resa.
Il Crocifisso di Belice se confrontato con quello, ora documentato nel 1636 al Di
Miceli nella chiesa del Rosario di Milazzo, rivela stringenti rapporti, non solo
nell'impianto iconico, ma ancor più nella definizione somatica del volto, con i
grandi occhi sbarrati che ne accentuano il pathos, e nel dato plastico che ripropone
l'asciutta sagoma con le stesse ferite calibrate ad effetto, lo stesso perizoma
ripiegato, col bandolo sul fianco destro scoperto, tenuto da una cordicella. L'unica
variante è data da un più accentuato movimento di torsione, nel Cristo di Belice
che, spezzando l'assetto frontale, dà conto di una avvenuta evoluzione in senso
barocco, che accredita convincentemente al 1638 la data di commissione dell'opera,
quella stessa tramandata e confusa assieme ai dati leggendari.